La BD à tous les étages:
60 anni di fumetti a Parigi

Parigi, Centre Pompidou: Bande dessinée, 1964-2024

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La mostra Bande dessinée, 1964-2024 (dal 29 maggio al 4 novembre 2024), pensata, voluta e ospitata dal Centre Pompidou come fiore all’occhiello prima della chiusura per lavori stimata in 5 anni, è stata presentata dalla stampa e dal Centro stesso come la consacrazione del fumetto nell’alveo dell’Arte con la A maiuscola.

E ciò senza contare che mostre sul fumetto sono ospitate da anni ad Angoulême durante il celebre Festival anche al Museo d’arte cittadino, e non solo per mancanza di spazio; o che da un punto di vista commerciale il settore traina tutta l’editoria francese, riservando sorprese notevoli (al di là di Asterix, il libro più venduto Oltralpe l’anno scorso è stato Le monde sans fin di Jean-Marc Jancovici e Christophe Blain, pubblicato in Italia da Oblomov Edizioni); che la materia, come spiegato in un nostro articolo, è già oggetto di studi e di cattedre universitarie e che, in fondo, la denominazione di Nona arte per il fumetto è nata proprio in Francia.

La presentazione può quindi apparire pretestuosa, sebbene il simbolo sia prestigioso e quindi eloquente: il Centre Pompidou, ideato da Renzo Piano e Richard Rogers alla fine degli anni Settanta, è il Museo d’arte contemporanea per eccellenza, che nel gotha mondiale ha preceduto il Guggenheim di Bilbao disegnato da Frank Gehry e sta alla pari con quello di New York progettato da Frank Lloyd Wright. 

Tuttavia, non nascondiamo qualche perplessità. La mostra è infatti organizzata per aree tematiche che, a dire il vero, non presentano connessione manifesta: Controcultura, Paura, Sogno, Ridere, Colore, Bianco e nero, Storia e memoria, Autobiografia, Giorno dopo giorno, Letteratura, Anticipazioni, Città e geometria.

Dalle emozioni si passa alle tecniche e poi alle funzioni, sinanco alle similarità (Città e geometrie) senza soluzione di continuità, e in mancanza di un asse cronologico (benché il percorso si delinei tra il 1964 e il 2024, la delimitazione temporale è puramente indicativa, e si salta allegramente da un anno o da un decennio all’altro), si pena a trovare il minimo trait d’union – sia esso tematico o tecnico.

La scelta poi di iniziare il percorso con la sala dedicata alla Controcultura lascia perplessi. Si entra e a sinistra si trovano tavole di un racconto breve di Kuniko Tsurita (Mia moglie è un’acrobata), tratte dal n. 128 dell’aprile 1974 della rivista giapponese d’avanguardia Garo, che rivoluzionò il genere; alla destra nientepopodimeno che Fritz the Cat di Robert Crumb (1959, cinque anni prima del limite cronologico indicato nel titolo), e al centro Barbarella di Claude Forest (1962, si anticipa ancora).

Al di là della contraddizione cronologica, la divaricazione geografica ma soprattutto estetica è talmente grande che non si capisce cosa accomuni l’uno all’altro, al di là di un’attitudine grafica e narrativa antitetica a codici che, poiché non sono stati né illustrati né spiegati in precedenza, non si sa quali siano.

E se quei codici si danno per scontati, la perplessità aumenta, poiché il museo viene meno a quella che è la sua ragione d’essere: conservare e presentare per spiegare. È questo il punto critico maggiore: quotidiamente la mostra accoglie scolaresche di tutte le età, mettendo a disposizione guide e materiale didattico, ma fallisce nella sua funzione, che è appunto pedagogica.

In margine a pagine celebrative e comunque entusiastiche (il che, visto dall’Italia, è sempre lodevole), la stampa ha sottolineato come in realtà il Centre Pompidou cerchi di colmare un ritardo che è sia artistico che culturale: il Centre possiede nella sua riserva solo due tavole di Tintin – donate tra l’altro dalla vedova Hergé (non acquistate, quindi) – e tutte le tavole presenti sono state messe a disposizione da Michel Leclerc, amministratore delegato del gruppo E.Leclerc (i supermercati, per intenderci, ma non solo).

La sensazione è quella che i curatori della mostra si siano trovati davanti un materiale a partire del quale hanno dovuto poi concepire un percorso: difficilmente, infatti, un’istituzione pubblica avrebbe potuto dedicare una mostra a un privato – tra l’altro ancora in vita – per quanto mecenate lungimirante (almeno per quanto riguarda i fumetti, che si tratti di una passione o di un investimento economico).

Ne vale la pena quindi? Se il neofita fatica a trovare un filo conduttore e si trova il più delle volte spiazzato, l’appassionato avrà comunque pane per i suoi denti. E che delizie! Raro infatti è trovarsi innanzi, in una stessa giornata, gli originali delle tavole domenicali di Peanuts (Charles Schultz) e di Calvin e Hobbes (Bill Watterson), le vere e proprie gigantografie di Chris Ware (Building Stories) e Philippe Druillet, gli schizzi preparatori di Maus di Art Spiegelman, le gouaches del Dracula di Alberto Breccia e il bianco e nero di Dino Battaglia (le quattro tavole iniziali de La signorina Fifì, Il golem, La caduta della casa Usher e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde), le miniature di Mœbius (Starwatcher, illustrazione scelta per il manifesto della mostra e la copertina del catalogo, è grande quanto una cartolina) e gli acquarelli di Will Eisner, la cura certosina del tratto di François Schuiten e, sulla stessa linea ma in maniera diversa, di Nina Bunjevac e pure di Joe Sacco.

La maestria di Thomas Ott, che incide e gratta con lamette tavole non più grandi (ancora!) di una cartolina come fossero incisioni d’inizio Novecento (e ringrazio l’anonimo signore che, vedendomi togliere gli occhiali per avvicinarmi e cercare di capire come funzionava, si è messo a spiegarmi la tecnica con entusiasmo e affabilità), la padronanza temporale di due autori apparentemente “minori” come David Prudhomme e Camille Jourdy, sino a quella che – a detta di chi scrive – è stata la rivelazione della mostra: la doppia tavola panoramica tratta da La guerre d’Alain di Emmanuel Guibert (tradotto in Italia da Coconino Press), le cui sfumature notturne – tonalità acquarellate di nero e grigio – lasciano letteralmente senza fiato. Ammirare poi, l’una di fronte all’altra, tavole tratte dalle Etiopiche di Hugo Pratt e Sin City di Frank Miller fa capire che quest’ultimo non ha inventato nulla, né sul piano formale né su quello narrativo.

Al di là delle pur notevoli assenze – le historietas si riducono a Breccia, i comics a una copertina Marvel per decennio, gli italiani a Mattotti, Crepax, Battaglia e Pratt (al cui Corto Maltese è comunque dedicato uno spazio annesso gratuito al secondo piano, dove si trova la biblioteca pubblica) – è nella varietà degli approcci, degli stili, delle tecniche e del formato che si afferma allora la pregnanza artistica del medium fumetto, pienamente e interamente immerso nelle correnti artistiche del Novecento, e che solo in ragione della sua “riproducibilità tecnica” (dixit Walter Benjamin), della sua funzione commerciale e del suo legame popolare (che Andy Warhol e Roy Lichtenstein hanno poi ampiamente sfruttato) non si è a tali correnti – ciecamente – voluto associare.

Al di là dei limiti pedagogici evidenziati e al di qua del luogo che la ospita, l’evidenza stessa delle tavole esposte riesce nell’intento dichiarato della mostra: quella di aprire gli occhi e far riconoscere a chi guarda la dignità artistica del fumetto, tanto da un punto di vista estetico che storico. Che poi – forse – chi faceva fumetti e ancora li fa manco lo immaginava, mentre invece la passione e la cura del gesto lo manifestano al di là di ogni ragionevole dubbio.

Negarlo non asseconda la massima che solo la bellezza sta nell’occhio di chi guarda: evidenzia semmai la cecità di chi non vuol vedere.

Vasco Zara

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