Giunto al 40° volume della saga di Jeremiah, pubblicato pochi giorni fa in Francia, Hermann ha ancora qualcosa di dire sul binomio creato più di quarant’anni fa (era il 1979) e le cui storie sono da allora pubblicate ininterrottamente, con cadenza quasi annuale?
La domanda pare lecita, tanto l’autore sembra riservare a questa serie la sua visione del mondo e del medium di cui è uno dei riconosciuti maestri a livello internazionale (Grand Prix al Festival d’Angoulême nel 2016 – e il riconoscimento pareva già tardivo). In questo secondo e conclusivo capitolo del dittico iniziato con Rancune, la trama – poco più che un canovaccio – si mantiene su un filo: un filo fatto di violenza e caos, nel quale procediamo sperduti e storditi tanto quanto Kurdy alla ricerca di Jeremiah, senza che i dettagli del contesto e dei comprimari che occupano la scena siano chiari. E poco importa: è l’immersione in una violenza irragionevole quel che preme sviluppare.
La lettura scorre veloce. Hermann padroneggia la struttura narrativa della tavola come pochissimi oramai (non si capisce nulla, si intuisce qualcosa e si va avanti comunque, imperterriti). Ancor più rari sono quanti usano l’acquerello come lui. La densità cromatica è sempre funzionale alla storia: quando – a cinque tavole dalla fine – Kurdy vede il cielo azzurro, il sollievo è anche nostro. Ma il tratto, pur non stanco, sembra accontentarsi di se stesso: il profilo quasi caricaturale di Kurdy cambia ad ogni vignetta, e bisogna aspettare pagina 22 perché il protagonista abbia finalmente fattezze definite. E l’approssimazione, si perdoni il gioco di parole, non è mai “buon segno”.