Dylan Dog, o della velocità dell’anima, II atto

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Il protrarsi di un clima tipico da “maggembre”, come ormai già ribattezzato ovunque in Rete, contribuisce (fortunatamente, per chi scrive!) a ridurre la percezione dello hiatus che ci separa dalla prima parte di questa trattazione.
Riprendiamo quindi con il Dylan ubiquo, spostando stavolta il punto di vista su una prospettiva ortogonale rispetto alla precedente: laddove infatti prima si parlava delle diverse sfumature del Dylan “a solo”, ora è il turno del “Dylan con”, e del modo in cui il suo universo narrativo si incontra (e si scontra) con quello di altri personaggi bonelliani, sottolineando così in maniera decisa la presenza di un super-spazio di ordine superiore che tutti li comprende e che a sua volta è compreso tra le mura dei locali della Casa Editrice.

Pistole & pistole (& ancora pistole)

Da un lato, Dylan che ospita Martin (ed entrambi in realtà ospitano qualcun altro…) in una storia attesa da oltre un quarto di secolo, e che forse proprio per questo si concede più di un tratto di grandeur con i camei di numerosi personaggi appartenenti alla storia lontana e recente della Bonelli; dall’altro, Dylan che viene ospitato da Morgan (anche se la storia si svolge a Londra) per quello che solo in apparenza si presenta come un classico “what-if”, e che anzi fa da apripista alla terza incarnazione del cacciatore di taglie di New Heliopolis, la quale a sua volta si concluderà con un nuovo team-up volto a risolvere tutte le trame lasciate in sospeso.
Il terzo, e sospirato, incontro tra Indagatore e Detective avviene grazie ai buoni uffici di Carlo Recagno, con la collaborazione di Alfredo Castelli e la consulenza di Roberto Recchioni (oh, quanto è cool usare espressioni prese di peso da altri contesti lavorativi!), per i disegni della colonna Giovanni Freghieri, cui dobbiamo la resa grafica anche dei due precedenti team-up (cfr. qui e qui). La storia presenta nel complesso caratteri più mysteriani che dylandoghiani, e va comunque riportato che si tratta della prima prova di Recagno con la creatura sclaviana.

La conoscenza del mestiere traspare dalla capacità nella prima parte di alternare tra loro le diverse sottotrame, senza perdersi in inutili rimandi su chi sia chi e perché e come e quando. A farne le spese è però, quasi paradossalmente, la vicenda principale stessa, che stenta ad assumere contorni definiti, fino a ricevere una brusca sterzata grazie all’entrata in scena del reale protagonista della vicenda; a quel punto l’Avventura prende il sopravvento e subentra il problema di amalgamare il nuovo main topic con tutti gli altri elementi che erano stati messi sul tavolo fino a quel momento. A farne le spese è il ritmo della narrazione, che si concede verso il finale ben più di un’ellissi e si prostra all’italico diktat del “volemose bbene”, riportando le acque alla (relativa) tranquillità originale. Fino ad allora, l’effetto – comunque riuscito – è un po’ quello di ritrovarsi in un episodio di Natale di una sit-com Americana: una trama di base portata avanti solo dall’ingresso in scena di guest star accompagnate da applausi e grida del pubblico. A fine episodio il fan di vecchia data non farà altro che applaudire a questa o quella comparsata, mentre il neofita rimarrà pressoché indifferente al tutto.

L’albo però, a conti fatti, non è per neofiti, per cui Recagno calca forte la mano e prosegue in questa direzione alzando sempre più il ritmo fino al colpo di scena finale con gli applausi di tutto il pubblico.

Un po’ più in basso vola Claudio Chiaverotti (anche lui coadiuvato da Recchioni per la stesura del soggetto) nell’immaginare degli anni ’80 alternativi, in una Londra in tricromia che ostenta il risultato della deviazione del fiume lento della Storia, e nella quale troviamo un Morgan Lost avanti con gli anni, e che ha cercato di andare avanti anche nella vita, sebbene con alterne fortune. In questo caso Chiaverotti gioca abbondantemente in casa, portando ad incontrare una creatura di cui ha contribuito a costruire per buona parte l’immaginario nei suoi primi 100 numeri, con un’altra di cui è padre e padrone assoluto. Ciononostante, la differenza di “parentela” con i due personaggi emerge abbastanza chiaramente: Morgan è nato dalla penna di Chiaverotti, e in quanto tale viene pennellato con una padronanza superiore a quanto avvenga con Dylan, anche perché l’autore decide di mettere in campo uno dei personaggi femminili più iconici dell’intera storia di Dylan Dog, quella Bree Daniels il cui ricordo inevitabilmente riveste ancora oggi le pareti del cuore dell’Indagatore dell’Incubo, infiltrandosi in ogni suo nuovo afflato sentimentale e compromettendone così inevitabilmente l’esito. Sclavi (e Marcheselli dopo di lui) hanno dato vita all’anti-metà ideale per l’anti-eroe per eccellenza: un’impresa questa che veramente fa tremare i polsi, e altrettanto naturalmente il tremolio della mano di Chiaverotti si avverte tutto, ancor più se affogato in quel suo stile mai privo di un certo autocompiacimento che lo porta spesso e volentieri a intingere l’inchiostro nel sottile rivo che scorre al confine tra il surreale e la leziosità. L’artificio narrativo che sovrappone i due immaginari narrativi assolve al suo compitino, ma ciò che più importa è il twist finale, che finalmente concede a Dylan un pianto liberatorio nell’abbraccio materno con la Morte, e da il “la” ad una nuova strana coppia di investigazione: se di “what if” si deve parlare, allora tanto vale sparigliare le carte come si deve. L’intenzione – come si suol dire – è buona. La resa per adesso non all’altezza. Relativamente a margine, la mano di Val Romeo che (tri)avvolge il tutto in una patina da fotoromanzo, con almeno l’indubbio merito di renderci una Bree davvero in gran forma.

Razionalità (di Martin) vs. Razionalità (di Morgan)

La particolarità dei due team-up sta, oltre che nella loro sincronicità, nell’aver messo Dylan di fronte a due personaggi chiaramente distanti dalla sua natura, sebbene differenti anche tra di essi. Il carattere pragmatico di Martin è già stato fonte di più di uno scontro con Dylan, sebbene a entrambi sia stato fatto notare come in realtà nascondano nel proprio profondo (come ciascuno di noi, del resto) uno yang in luce circondato da un dilagante yin: è questo il vero segreto del legame che li porta a percepirsi come gemelli diversi, due facce di una moneta che in realtà è un impossibile triedro, e che proprio per questa sua natura non consente alcuna sintesi stabile tra i due. Ne è prova l’unico momento degno di nota per la loro evoluzione, e che giustifica e motiva la profonda dicotomia che li caratterizza, vale a dire i due brevi episodi in cui entrambi incontrano i propri alter ego, e che forse da soli valgono l’intera lettura. La seguente vicenda del Murchadna risulta, alla luce di ciò, più funzionale che di effettivo interesse, non foss’altro per il fatto che induce speculazioni che poco facilmente troveranno piena spiegazione, quantomeno in tempi brevi.
La concretezza di Morgan, la sua determinazione nell’applicare le tecniche di caccia ai serial killer, così come la sua necessità di trovare e percorrere un ideale filo logico di ragionamento conducono nel secondo caso al reale punto di svolta della vicenda. Come già sopra accennato, la spiegazione “lostiana” del twist mostra nella resa una sicurezza maggiore rispetto a quella “dylaniata”; ne segue, con soddisfazione del lettore, il prevalere del detective sull’indagatore, sul piano tanto fisico, quanto logico e narrativo, e si può quasi dire che l’intera storia prenda quota solo in quel momento, a poche tavole dalla fine, per un finale in crescendo e non zavorrato da quell’eccesso di fronzoli che invece mettono a repentaglio l’impiego di una figura tanto ingombrante quanto scomoda come quella di Bree: la sua presenza è sì al servizio dell’idea che sta alla base del team-up, ma conti fatti quest’idea non riesce a mostrare quel mordente che pure avrebbe dovuto esercitare.
È plausibile concludere che il quinto senso e mezzo di Dylan ha la peggio con entrambi i comprimari, per diverse serie di motivi. A ben pensarci, però, la cosa non è del tutto negativa: Dylan si caratterizza per essere spesso “vittima sacrificale” della verità, e in queste storie ne ha incontrate due di diversa fattezza ma di medesima caratura – o forse è lui ad essere stato secante alla stessa mutevole ed incommensurabile verità. La questione, pur se di intrinseco interesse, perderebbe sicuramente valore se forzata ad una qualsivoglia spiegazione.

Riassumendo (pt. II)

Il precedente articolo ha esplorato il carattere longitudinale dell’intensità di scrittura applicabile al personaggio Dylan. In questo secondo caso, l’analisi si è mossa nel senso della latitudine, spaziando tra due coordinate diverse sullo stesso meridiano. Unico elemento in comune tra le due storie, al di là del carattere di team-up: la presenza dell’attuale curatore della serie nella buca del suggeritore, che smorza per quanto possibile le peculiarità dei due autori principali. Anche in questo caso, a ben vedere, può tornare utile la già citata metafora del “torre” e del “porre”.
Recagno aggiunge portate sulla tavola, lancia ammiccamenti alla “all-you-can-eat”, e proprio come nell’ormai diffusa formula del gastromercato si riempiono i piatti l’uno dopo l’altro, con il rischio di perdere di vista il filo conduttore tra le portate, e trovandosi magari a mangiare cantonese subito dopo le burrate semplicemente perché le portate erano state collocate in maniera attigua.
Chiaverotti spoglia Dylan di un ruolo di primo piano già a partire dal titolo del team-up, per poi preferirgli Morgan e Bree, fino a renderlo protagonista in negativo dell’intera vicenda, con buona pace del villain ripescato dal capolavoro disegnato a suo tempo da Soldi.
In comune, il sostrato narrativo, che in ambo i casi si rivela essere alla fine una sorta di consacrazione dell’Universo Bonelli: il super-spazio che strizza con forza l’occhio alle produzioni supereroistiche statunitensi, perseguendone il glamour sotto l’aspetto del marketing, ma (ancora?) non in grado di allontanarsi dal tono artigianale con il quale il brand del “made in Italy” si pavoneggia.
Un altro tassello del percorso di “indefinizione” già introdotto la scorsa volta.

Un piccolo passo per Dylan, un grande passo per i lettori.

Resta solo da capire in che direzione.

Oscar&Pasquale

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