Ma un giorno nel paese arrivo io di lunedì
Di come una meteora apparve in cielo
Ammettiamolo sin da subito: il mondo di Dylan Dog, anche prima dell’apparizione della meteora, non se la passava benissimo (almeno non sempre).
La sua oramai ultratrentennale storia editoriale, il carisma del personaggio, la varietà di mondi e situazioni esplorabili, nonché la forte caratterizzazione donata a Dylan da Sclavi sono finite per rappresentare un enorme fardello, nodo gordiano, quasi un punto debole, per gli autori. Dall’abbandono di Sclavi, in pratica, quegli stessi punti di forza che lo avevano reso IL fumetto simbolo di una generazione e icona indiscussa della cosiddetta letteratura disegnata a livello italiano (e non solo), si sono trasformati in pretesti per promuovere uno via l’altro adattamenti di se stesso, alla continua ricerca dell’affermazione/ripoposizione di una identità in realtà immutabile: un giochino che, nelle intenzioni della casa editrice, degli sceneggiatori (e dei lettori della vecchia guardia), avrebbe potuto perpetuarsi indefinitamente, intoccabile ed intoccato dal crescere (in età) dei suoi lettori e dall’arrivo, magari, di nuovi. Cambiare tutto qualcosina, affinché nulla cambi.
Forse non è andata proprio secondo i piani, o meglio: se c’è questa enorme meteora in cielo, possiamo presumere che: a) il piano non ha funzionato; b) alla fine, ci si sia comunque fatti persuasi che le evoluzioni, per quanto drammatiche, siano necessarie; nei fumetti come nella vita.
Nella vita di Dylan Dog, in questo caso.
Di se e quanto fosse necessario fare apparire una meteora in cielo
Il mondo di Dylan Dog, con l’arrivo della meteora, sta per finire.
Perlomeno sta per finire per come lo conosciamo.
Questo impatto, le sue conseguenze, sono davvero l’unica possibilità che abbiamo? Evolverci, liberarci dal fardello, cancellare topoi e stilemi? Conservare solo un nome ed una camicia, è questa la soluzione?
Un popolare aneddoto racconta della “teoria del camion” elaborata da Dashiel Hammett, secondo la quale un abile stratagemma per chiudere (furbescamente) una storia la cui trama si era troppo aggrovigliata su se stessa, è quello di far investire inavvertitamente tutti i personaggi principali della storia stessa da un camion, mentre ignari stanno attraversando la strada.
Nel nostro caso, Recchioni si è trovato a gestire, in qualità di autore e soprattutto curatore della testata, un personaggio ed un universo non suoi; avendo evidentemente avuto carta bianca su come portare avanti le cose (ed evidentemente avendo dalla sua, eufonicamente parlando, capacità differenti da quelle che Marcheselli aveva ampiamente mostrato in entrambi i ruoli), non si è comunque lasciato sopraffare dal peso specifico del personaggio (come invece capitato a Gualdoni, che ha trascinato Dylan lungo i viali di un triste declino) ma ha deciso di contrattaccare, imponendo da par suo la sua propria visione alzando l’asticella della suspension of disbelief (un po’ come fece ai tempi Garth Ennis al suo esordio su Judge Dredd). Il risultato?
Di quando una meteora si schiantò sulla Terra
Il risultato è che il mondo di Dylan Dog non esiste più: un “oggetto” dallo spazio ha posto fine all’eroe Bonelli.
Pur accettando che ciò dovesse (inevitabilmente?) accadere, ciò che a conti fatti pesa maggiormente è la scelta di farlo attraverso un sostanziale e sistematico “tradimento” del canone dylaniato, quello stesso canone che Sclavi era tornato magistralmente a mostrarci nel num. 375.
Il nodo gordiano di cui prima è stato reciso con un colpo di spada (cosa che, in Watchmen, Alan Moore definisce come un’applicazione ante litteram di pensiero laterale) o, in altre parole, l’unica soluzione sensata agli occhi del nuovo curatore è stata quella di far finire appunto tutta la banda di Dylan & Co. sotto il famoso/famigerato camion; chiaramente, il ruolo del camion è svolto in questo caso dalla meteora.
All in all, per mettere in scena questo investimento ci è voluto un arco narrativo che si spalma in pratica su un totale di 64 mesi, con un periodo di preparazione che si snoda lungo i numeri che vanno dal 337 al 386, conducendo anamorficamente il lettore alla saga vera e propria, a partire dal num. 387.
Per investire dei passanti con un camion (metodo che a questo punto, almeno per la rapidità d’esecuzione, avremmo preferito) c’era bisogno di qualcuno che quel camion lo guidasse: è questo ovviamente un ruolo collegato come vedremo alla figura del curatore, in forza della carta bianca avuta da: a) i capintesta della casa editrice che nella saga, sempre a fronte di questo gioco di ruoli, è impersonata dal Groucho spalla e agente doppiogiochista, e che alla fine riesce anche a farsi perdonare, per poi cadere vittima di un’uscita di scena tanto imbarazzante quanto anticlimatica; b) il creatore di Dylan, che nel num. 400 reifica la sua ingombrante eredità e dà una seconda morte a Groucho, per poi offrirsi egli stesso alla morte per mano di Dylan, liberando così la sua creatura dai panni di Peter Pan così come da un’imberbe e cristallizzata dimensione temporale.
Ritornando a noi, il conducente del camion è lapalissianamente l’alter-ego del curatore, in quanto serviva qualcuno che fosse necessariamente dotato di una visione meta-mediale per tirare i proverbiali fili affinché tutta la citata banda si trovasse ad attraversare quella strada in quel momento. Il conducente è ovviamente John Ghost, la cui natura è per questi motivi avulsa e incompatibile con l’universo dylaniato a lui pre-esistente, e che fin dall’inizio nel num. 341 ha dimostrato al lettore di essere capace (e cosciente) di sfondare la quarta parete, abilità programmata a tavolino dall’autore e svelata agli altri personaggi solo alla fine, nel num. 399, quando cioè si calano gli assi sul tavolo e si raccoglie la posta ridicola che si era accumulata fino a quel momento.
A questo punto, poco importa che nell’incidente anche il conducente stesso del camion rimanga coinvolto e perda la vita (o almeno così sembrerebbe): la trama – ossia tutto il vissuto e il raccontato di Dylan dal 1986 al 2019 – è stata conclusa, per cui se ne può iniziare un’altra.
Di quanto rimane dopo lo schianto della meteora
Il n. 400 non è altro allora che un interludio che ha la pretesa di mostrarci un Dylan psicopompo (altro che Archie!) tra isole di frammentati aldiqua e aldilà narrativi, suggerendo la risoluzione di un complesso di Edipo con contorno di ritorno all’età dell’innocenza, con tanto di effetto speciale di crescita di barba in stile hipster (“il paradosso della distinzione di massa”, come ha detto qualcuno) e comparsa di un nuovo assistente direttamente dal piccolo mondo dell’incubo antico di Francesco Dellamorte (anche se Andrea sarebbe suonato meglio).
Tutto fumo negli occhi: la realtà è meno poetica, meno post-, ma neanche pre- o infra-: solo la vittoria dell’ostentazione di una incapacità di gestire un patrimonio artistico di valore immenso, facendone scempio e imponendone uno che non sarebbe neanche degno di slacciargli i sandali. “Incredibile, ma falso!”, sarebbe stato bello poter dire citando uno dei Grandi dell’umorismo di sempre; la supremazia ancora una volta della realtà sulla fantasia conferma che il Bardo invece ha ragione da diversi secoli, e noi possiamo solo vestire i poveri panni di un Orazio qualsiasi ed assistere impotenti all’incedere degli eventi.
Tutto questo però ci porta paradossalmente a poterci liberare di un classico bias: tante volte infatti si dice “quel personaggio dei fumetti è cambiato nel tempo, anzi sono io che sono cresciuto e non lo percepisco più come facevo un tempo”. Bene, ora è possibile smettere di leggere Dylan Dog senza conflitti né contraddizioni, perché con il num. 401 fa ufficialmente la sua comparsa nelle edicole il Dylan Dog di Recchioni, e non più quello di Sclavi: una nuova testata, con un nuovo personaggio che solo incidentalmente ha fattezze simili a quell’altro, e usa una numerazione che è la continuazione di una numerazione precedente, invece di ripartire da 1.
Se dunque cambia il contesto, il bias viene meno e il lettore è libero di prendere altre strade, potendo contare però su 336 mesi di storie – ovviamente, come detto, con tutti gli alti e i bassi del caso – con le quali e grazie alle quali si è cresciuti e ci si è formati ed ispirati.
Rimane solo l’augurio (e la speranza) che ciò possa valere anche con chi inizierà tale percorso di lettura e di vita con questo nuovo Dylan Dog: che il personaggio di Recchioni possa formare ed ispirare per il futuro come il personaggio di Sclavi ha fatto, con geniale semplicità e poesia, per trentacinque anni.
Dylan Dog è morto, lunga vita a Dylan Dog.