Destrutturare Dylan Dog?
Perché, se basta “solo” scriverlo bene?

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Destrutturare Dylan Dog? Perché, se basta “solo” scriverlo bene?

Finalmente assistiamo al tanto chiamato in causa “downgrade” di Dylan Dog. Solo che nessuno ormai ne parla più, fors’anche perché “far tornare alle origini” Dylan è tutto tranne che una destrutturazione. Meno male che qualcuno ci è arrivato (no, tra questi non c’è l’inventore del suddetto slogan). E meno male che, tra questi, è Gigi Simeoni ad esserci arrivato nella forma più compiuta.

In parole povere: Simeoni scrive due storie consecutive applicando un equilibrio ottimale tra tono classico e maturità personale, dimostrando di saper applicare il manuale di descritto da Sclavi sul numero 375 in maniera quasi impeccabile. Eppure il suo Dylan non è il Dylan di Sclavi, non è fermo alla metà degli anni ottanta, ha tutto un altro ritmo ed un altro mondo.

Ad un livello più di superficie, la condivisione del mondo attuale non rimane più (come negli ultimi anni) solo una vignetta col cellulare o un accenno all’uso di internet, ma diviene profonda interiorizzazione del disagio contemporaneo, del distacco sociale e delle antipatie e simpatie nei confronti del prossimo.

Scendendo sotto il pelo dell’acqua, si viene a contatto con un perfetto esempio dell’adagio secondo il quale la semplicità è tutt’altro che qualcosa di semplice. Dimostrarlo richiede però un’analisi per gradi, che esulano necessariamente dal contenuto delle due singole storie, o dal loro comparto grafico (per quanto sia comunque importante parlarne in seguito).

Primo step

Simeoni crea una piccola sacca di continuità (pur tra piccole sbavature) che rende il personaggio di Dylan più legato alla realtà (e all’attualità) che lo circonda. Dylan è un investigatore dell’occulto, ma prima ancora è un investigatore (ed ex-poliziotto) che qualcosa ancora ricorda di quanto gli è stato insegnato a Scotland Yard, senza dover ricorrere al “quinto senso e mezzo” come chiavistello narrativo. Investigare è lavoro di testa e di gambe, e poco importa se la testa e le gambe appartengono ad una bambina fantasma, o ad uno zombie in un cimitero. Ciò che conta sono gli incerti del mestiere quali le false piste, le strade senza uscita, i ragionamenti induttivi, elementi che grazie al lor peso specifico semplicemente appallottolano e mettono da parte la sospensione dell’incredulità per far risaltare agli occhi del lettore ciò che veramente conta: storie solide e dotate di logica. A tale proposito, la qualità dell’intesa e della collaborazione tra Dylan e Bloch in queste storie ha uno smalto come non lo si vedeva e percepiva da molto tempo.

Secondo step

Simeoni abbandona il classico schema sclaviano che punta sull’iniziale scetticismo di Dylan per consentire al lettore di adeguarsi gradualmente al mood dell’albo (e del caso) del mese. In queste due storie Dylan è perfettamente consapevole di sé e del mestiere che fa, e proprio in forza di ciò recupera la sua empatia per gli emarginati, per i freak, per i colpevoli.

Terzo step

Dylan è, come tutti, immerso in una realtà multifenomenica. Occuparsi di (o incappare in) un caso non esclude che possano accadere eventi collaterali (come l’indagine del cimitero, o l’incontro/scontro con il teppista), nel pieno rispetto tra l’altro di John Lennon quando diceva: “La vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri programmi”. Letti in questa prospettiva, tali passaggi narrativi si smarcano da etichette quali “riempitivo”, o “giustapposto”, per acquisire appunto sapore di realtà (pur ovviamente con i distinguo del caso: è questo il frangente in cui la sospensione dell’incredulità trova la sua ragion d’essere).

Quarto step

Quanto esposto nei punti precedenti viene narrato in queste due storie senza alcuna necessità di complessificare il soggetto di  partenza, o di sofisticarlo artatamente in sede di sceneggiatura. La storia editoriale di Dylan Dog è caratterizzata da esempi più o meno numerosi per entrambe le situazioni (in particolare, alla prima tipologia si possono ascrivere alcune tra le prime storie della Barbato; sulla seconda si preferisce sorvolare per evitare favoritismi in negativo), ma raramente come in questo caso si può asserire a ragione che il nuovo continua a stare nel vecchio, ossia nella formula “reale” di Dylan, quella appunto del manuale sclaviano. Che il padre di Dylan abbia scritto “Nel Mistero” appunto per correggere il tiro o ricordare la direzione? Quasi a dire: le linee guida sono queste, prendetele come vadevecum, poi divertitevi”? A pensarci potrebbe essere una chiave di lettura non troppo distorta: la Storia di Sclavi ha una sceneggiatura che in più punti fa acqua, ma il plot di base è un documento universale applicabile in ogni campo che agisce a livello alto e quel livello è perseguito da Simeoni in maniera costante con risultati interessanti e promettenti.

Tra Dylan e Constantine

Alla luce di tutto questo, Dylan si è reso più simile a John Constantine in questi due albi di quanto lo sia mai stato finora (supponendo che uno degli scopi originali della creatura sclaviana fosse questo): ad un primo esame sembra che i due personaggi condividano poco altro al di fuori della cittadinanza britannica; oltretutto, Constantine è una sorta di “mago” della classe operaia, ritratto sputato del grigiume thatcheriano anni ’80. La somiglianza si rivela se si accosta alla lettura del Dylan di Simeoni il Constantine di Paul Jenkins: la naturalità infatti del modo in cui l’occultista della Vertigo affronta la sua realtà di “pain in the ass” per le forze degli inferi (ma anche della parte avversa) è proprio quella che fluisce qui tra pagine che parlano di bambini posseduti, di amanti del tango, e di un incontro con la Morte finalmente degno di questo nome – incontro tra l’altro che Dylan in un primo tempo risolve giocando d’astuzia, e quindi d’intelligenza, dote di cui non difetta, ma senza alcuna tirata alla “John Doe” che, appunto,non appartiene al carattere e al modo di fare dell’inquilino di Craven Road.

“Possibile che io ti debba incontrare ovunque vada?”

È straniante pensare che l’autore che maggiormente riesce a far fare alla testata questo balzo in avanti (se proprio vogliamo dirla in questa maniera) pur guardando al passato come si è detto, sia Simeoni: un autore cioè che ha mostrato già con Nathan Never di saper parlare di persone, prima ancora che di personaggi, ma che su Dylan Dog ha scritto poco e raramente, declinando piuttosto il suo mondo a quello di Dylan e non viceversa. In questo nuovo corso dylaniato (vogliamo credere che ci sia ancora) è forse quindi l’unico ad aver correttamente interpretato i proclami di Recchioni, che come si diceva nemmeno lo stesso Recchioni ha saputo interpretare (non basta un Johnny Ghost-ex-machina una volta ogni tanto, o un Groucho double agent a rendere Dylan qualcosa di nuovo).

Come accennato all’inizio, un giudizio sul comparto grafico non lo si vuole negare, sebbene l’impressione sia che la bontà della scrittura quasi faccia risaltare di meno le virtù della messa per immagini. Forse questo è uno dei rari casi in cui anche un tratto più ricercato non sarebbe apparso come approccio sperimentale, ma sempre e comunque come funzionale allo svolgersi delle due vicende. E sì che ad aiutare l’autore troviamo invece due delle colonne più importanti della testata: Giovanni Freghieri e Bruno Brindisi.

Il loro tratto rende ancora più morbida la transizione regalando agli occhi una silhouette tanto familiare quanto intensa. Intensità che è soprattutto di Brindisi il quale, pur adoperando in abbondanza i retini, riesce a conservare quella sua espressività realistica tanto efficace. Un po’ meno soddisfacente il lavoro di Freghieri: troppo poco dettagliato nei volti e sbrigativo coi personaggi in secondo piano, si perde anche in enfasi utilizzando retini quasi grossolani.

Dopo una lettura come questa, non pesa ripetere che Dylan ha ancora tanto da dire. Dylan è stato (molto) in passato ed è (un po’ meno) ancora adesso testimonial di eventi ed iniziative, come a dire che è in grado di adattarsi ai tempi pur mantenendo inalterate le sue caratteristiche. Tornare a pensare in quest’ottica è il più grande regalo che gli si possa fare. Di certo lo è di più che dirgli “per non fare passi indietro ti conviene fare passi indietro”.

Oscar&Pasquale

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