Signore e signori: LA SIGLA!
In questo articolo non mi occuperò d’animazione; anche perché, di animato oltre alla sigla, il personaggio non ha assolutamente altro.



Meka Chan è un fumetto edito dalla BAO Publishing e interamente realizzato da Claudio Acciari. L’autore è particolarmente famoso nel campo dell’animazione e può vantare un curriculum senza molti eguali in Italia. Il video allegato (proveniente direttamente dal canale ufficiale dell’autore) è utile per far luce sulla particolare genesi di questo albo.
Meka Chan nasce inizialmente come sigla o meglio, come divertissement nostalgico nei confronti di una certa animazione giapponese anni ’70, trovando poi compimento commerciale nella forma fumetto.
Protagonista è un robot bambina proveniente da un altro pianeta la quale, reputata troppo poco robotica dai suoi simili, viene costretta a una sorta di esilio forzato. Arrivata sulla Terra si troverà invischiata in un complesso complotto smascherato grazie al suo intervento; allo stesso tempo queste avventure le permetteranno di far emergere tutto il suo lato umano. Questa la trama a grandi linee, cercando di limitare il più possibile il temuto spoiler, a quanto pare piaga dei nostri tempi.
Per quanto siano presenti elementi quali: la vita artificiale, i viaggi nello spazio, la tecnologia avanzata, rimane difficile inquadrare il fumetto nel genere fantascientifico; molto più semplice è ricollocarlo all’interno dell’alveo del fantastico (da non confondere con la più ristretta traduzione inglese che prevedrebbe fantasy) o ancora più propriamente nella favola moderna.
L’ispirazione dichiarata se non sbandierata, come già detto, è quella degli anime anni ’70, i riferimenti più palesi sono le prime opere di Leiji Matsumoto (La Corazzata Yamato, Capitan Harlock, Galaxy 999, solo per citarne i più significativi) e il Conan ragazzo del Futuro di Miyazaki, opere le quali hanno rappresentato un faro tanto per i disegni quanto per il soggetto. Ho riscontrato, anche se non esplicitamente dichiarato (qui l’intervista apparsa su Fumettologica a Claudio Acciari) l’influenza di Osamu Tezuka; me lo hanno ricordato la visione esclusivamente meccanica e semplicistica di Meka Chan (appellata sempre come robot e mai, più correttamente come androide, termine forse evitato in quanto considerato troppo moderno) vicina a quella di Astro Boy e il respiro onirico dell’opera che riporta alla memoria quello della Principessa Zaffiro.
Acciari assolutamente coerente con il suo intento nostalgico scrive un soggetto impeccabile, perfettamente in linea con la produzione vintage da cui trae ispirazione non facendosi mancare,



giustamente, nemmeno l’esplicita metafora morale che pervade tutta la storia. Senza scomodare Pinocchio, non di certo il modello inseguito dall’autore, il viaggio iniziatico della protagonista ricorda da vicino quello intrapreso da Masai Hoshino di Galaxy999 (che forse, seppur inconsciamente, qualcosa all’autore di Collodi deve). Non ci sono quesiti irrisolti, non c’è ermetismo nel messaggio di Meka Chan che risulta semplice, chiaro e diretto.
Questa estrema è scossa dall’intrigato piano criminale ordito dall’antagonista della vicenda. L’intreccio narrativo è senza ombra di dubbio interessante, la sua complessità rischia però di stonare all’interno di un’opera che fa dell’elementarità la sua forza.
Quella presentata è la prima esperienza di Claudio Acciari nel fumetto e forse proprio questa sua estraneità ha fatto in modo che l’autore scegliesse un’impostazione grafica obliqua rispetto ai più comuni standard a cui l’industria fumettistica ci ha abituati.
La prima impressione non appena si apre il fumetto è quella di essere incappati nella stampa di uno storyboard più che ad un fumetto finito. Non vi ritroviamo alcuna traccia di composizione della tavola o forse, meglio ancora, non vi ritroviamo la tavola stessa. Ogni pagina presenta dodici vignette disposte rispettivamente su quattro righe e tre colonne, in questa disposizione non vi è traccia di velleità compositiva, il fumetto avrebbe funzionato allo stesso modo qualsiasi altro tipo di disposizione fosse stata scelta. I dialoghi sono posti all’esterno, in calce alla vignetta, soluzione inconsueta nel fumetto moderno, la quale rievoca, soprattutto nei lettori italiani, il fumetto preistorico di Rubino anche se, va chiarito subito, la somiglianza rimane superficiale ed esclusivamente estetica (ne mancano del tutto i modi e soprattutto le intenzioni).
I disegni sono in sfumature di grigio, volutamente “sporcati” per richiamare alla mente la bassa definizione dei vecchi televisori a tubo catodico. Le vignette hanno una struttura elementare, senza stratificazioni; non esistono rapporti di relazione tra di esse se non quelli della loro sequenzialità. I dialoghi esterni al disegno non consentono più di una battuta per vignetta (rarissime le eccezioni) riducendo enormemente il tempo interno della stessa. Tutte queste caratteristiche rendono la lettura di Meka Chan molto scorrevole, facile e poco faticosa, peculiarità pregevoli e assolutamente non discriminanti per un’opera di questo tipo.
Altri hanno posto l’accento sulla ridotta dimensione delle vignette; non ho trovato questo un deficit, anzi ho trovato l’idea in linea con l’impostazione stilistica e narrativa optate dal suo ideatore.
Le parole chiave di Meka Chan sono semplicità e linearità. L’intento di far rivivere al lettore le stesse emozioni, le stesse sensazioni di quando, negli anni ’70 da bambino si trovava a guardare gli anime giapponesi, trasmessi per la prima volta nel nostro paese, si può dire egregiamente riuscito. Personalmente esco dalla lettura non privo di qualche perplessità. Soggetto, trama, personaggi, ambientazione sono tutti perfettamente in stile, tanto in stile, talmente tanto da risultare troppo, sfioriamo il mimetismo. Non viene aggiunto nulla a quanto non sia già stato detto o provato trenta, quaranta anni fa.
Ammetto un mio limite, ma senza una rilettura, un punto di vista aggiornato insomma senza nuovi stimoli, l’operazione rischia di scadere nel mero esercizio di stile.
Anche l’interessante scelta grafica, uno dei motivi principali che mi hanno indotto all’acquisto e che sembrava potesse fungere da contraltare allo stile classico della storia, ha perso velocemente la sua forza. Acciari non è sembrato interessato a sondare le possibilità emerse dalla sua intuizione, ha scelto di non osare, di non spingere il piede sull’acceleratore eppure alcuni lampi c’erano stati e facevano ben sperare.



-In queste prime pagine, per l’unica volta, l’autore gioca con la dimensione delle vignette rendendole alcune più “wide”. Se percorsa, sarebbe potuta essere una strada molto interessante con potenzialità narrative rimaste però inesplorate.-
Vorrei concludere precisando comunque che questo primo lavoro dell’animatore italiano rimane di fatto un buonissimo prodotto, in grado di rendere felice qualsiasi nostalgico e qualsiasi appassionato di un periodo d’oro, per l’animazione giapponese e per la tv italiana.
La mia delusione è molto più figlia dall’alta aspettativa riposta verso un fumetto che sembrava potesse regalare qualcosa di più sul fronte della grammatica del linguaggio che non da una sua reale mediocrità. Mi auguro piuttosto di poter leggere in futuro altri lavori di Claudio Acciari, certo infatti che, grazie al suo bagaglio di competenze maturate nel campo dell’animazione, abbia ancora molto da dire e da mostrare nell’ambito della nona arte.