Seconda prova dampyriana per Gianmaria Contro, dopo il n.265 Anime di cera. Per questa avventura in solitario di Harlan, il neo curatore della testata mette in scena una storia che richiama gli stilemi dell’hard boiled urbano, con tutte le cifre classiche del genere.
Abbiamo quindi gli ambienti urbani degradati (Detroit), le gang criminali, il poliziotto sicuro di sé che si getta a capofitto nell’indagine (Harlan, per l’occasione dotato anche di distintivo), la società corrotta fin nel profondo, la droga (il Fentanyl) e le sparatorie. Se il soggetto alla base del racconto si rifà quindi, senza discostarsi, a tutta una letteratura (e cinematografia) di genere, la sceneggiatura prova invece a giocare con il medium fumetto creando una narrazione caratterizzata da una forte unità temporale e spaziale. Una linea temporale serrata (ogni scena conduce fisicamente alla successiva) che segue, senza stacchi temporali evidenti, l’indagine di Harlan. Una scelta mutuata da David Ayer, che aiuta il lettore ad immergersi nella vicenda che risulta rapida, intensa e dinamica.
Se la storia così riesce a farsi leggere con piacere ma, complice la foliazione ridotta, non riesce di contro ad andare a esplorare in profondità le tematiche che affronta. Il degrado di Detroit, seppur affascinante, non viene mai realmente approfondito, rimanendo sfondo sfocato facilmente intercambiabile con qualunque altra periferia e non contribuendo a caratterizzare la vicenda in maniera efficace. Alcuni personaggi secondari sono davvero troppo piatti e stereotipati, mentre altri – Tommy e Marcus tra tutti – avrebbero meritato un approfondimento maggiore. Harlan è comunque centrale e ben gestito, pur nella sua traslitterazione poliziesca e funzionale nello scontro con i ghoul protagonisti della storia.
Non convince appieno, invece, l’esordio sulla testata di Alfredo Orlandi: se, ad inizio albo, riesce a curare in maniera eccellente sguardi e inquadrature, allineandosi perfettamente all’incipit della storia con primi piani e dettagli realistici fortemente efficaci (anche se sembra leggermente abusata la necessità di richiamare volti di attori noti), man mano che la vicenda aumenta di ritmo – da pagina 31 – il suo tratto fortemente statico mostra la corda e perde di fascino, congelando i personaggi in pose innautrali che stridono fortemente con il ritmo della vicenda (emblematico Harlan che si arrampica sull’albero a pagina 43).
Inoltre, Harlan è troppo spesso rappresentato con uno sguardo spiritato e, come per Winterbottom, nei primi piani risulta privo di una reale espressività. Orlandi si rifà comunque con alcune interessanti inquadrature ed efficaci giochi di ombre che valorizzano bene i ghoul.
Un albo che non soddisfa quindi in toto: pur mostrando un’intelligenza narrativa, non riesce ad imporsi in maniera efficace come vorrebbe nella narrazione del personaggio e non viene sorretto da un comparto grafico che anzi, in alcuni passaggi, ne vanifica il potenziale.