Zagor n.107-109
“Ora Zero!”

Le storie degli anni '70 che hanno creato il mio immaginario fumettistico

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Dopo una nuova “deviazione” sulla strada del ritorno a Darkwood, causata dalla disputa tra i due nipoti del patriarca di Rapid City Henry Murchisson (io e il mio amico Butch Walts ne abbiamo parlato in questo articolo), Zagor e Cico tornano finalmente a casa: ma solo per trovare villaggi indiani devastati, baracche di trapper abbandonate e una cupa, “indefinibile sensazione di pericolo”…

È l’inizio di un’avventura con Hellingen che, all’epoca, mi colpì ed emozionò tantissimo: sì, in séguito ci sarebbero stati altri suoi ritorni e con toni ancora più epici e “weird” (nella storia con gli Akkroniani, in cui Bonelli/Nolitta avrebbe dato l’addio al personaggio che aveva creato; nell’atipica Incubi, firmata Sclavi; e poi nelle interpretazioni di Boselli e Burattini), ma mai come in questa occasione la minaccia architettata dal mad doctor sembrava sul punto di concretizzarsi, grazie all’appoggio di settori deviati dell’esercito e ad avveniristiche armi di distruzione di massa.

Le scene indimenticabili sono numerose: l’ingresso di Zagor, con Cico ferito, a Fort Bravery; la provvidenziale entrata in scena di Tonka, unico indiano rimasto a Darkwood; il bondiano vulcano spento, che cela la base dei cattivi; la sorpresa dello Spirito con la Scure davanti alla ricomparsa del suo eterno nemico; la scoperta del tradimento di Kraizer e dei suoi soldati; lo stupore e la disperazione del presidente degli Stati Uniti e dell’intero congresso, impotenti contro il colpo di stato in corso; la salgariana morte apparente che permette a Zagor di ribaltare la situazione; la vittoria, infine, conseguita usando contro i soldati quelle stesse armi che li stavano per portare al trionfo…

È uno Zagor titanico, anche se non ancora dotato di poteri “magici” come succederà nelle storie con Rakum e Kiki Manito nei successivi ritorni di Hellingen – e quindi molto più “terreno”, soprattutto nelle drammatiche scelte che deve compiere.

“Mi ripugna dover ricorrere a un mezzo tanto crudele, ma ora non si tratta soltanto di difendere le nostre vite… bensì la libertà e la dignità di un’intera nazione”, esclama Zagor prima di uccidere uno ad uno i soldati all’interno del vulcano con le scariche letali delle loro cinture, per poi far bombardare quelli che stanno marciando su Washington.

Verrebbe da dire “il fine giustifica i mezzi”, ma l’abilità di Nolitta è quella di rendere palpabile il tormento dell’eroe con la frase sopra citata, assecondato da un Donatelli ispiratissimo nella resa grafica di tutti i personaggi della storia con la curiosa – e incomprensibile – eccezione di Tonka, raffigurato con trecce e vestiti invece che nella consueta “tenuta” da indiano irochese, cioè a torso nudo e con capigliatura alla mohicana (l’anomalia verrà poi corretta nelle ristampe grazie all’apporto di Giorgio Montorio).

Più semplice, se vogliamo, la seconda scelta affrontata da Zagor, che decide di distruggere la base del vulcano e tutte le armi lì contenute pur di non lasciarle a disposizione del Ministro della Guerra, rappresentante di quel potere politico e militare che (come in molti ritorni successivi di Hellingen) vorrebbe usarle in nome del progresso e per difendere gli Stati Uniti dagli attacchi dei nemici.
È un epilogo perfettamente in linea con il carattere antimilitarista – o meglio, “antiguerrafondaio” – del personaggio, prima dell’allegro controfinale con il ritorno dei trapper e della normalità.

Una storia indimenticabile, che conclude il ciclo “odissea americana“.

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