Martin Mystère e il tempo (zero) che fugge

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Martin Mystère arriva in edicola ad aprile 1982, cioè nel momento peggiore per essere preso minimamente in considerazione dal sottoscritto: scottato dalla pessima esperienza avuta con Judas un paio d’anni prima, deluso anche dallo Zagor post-nolittiano (anche se avrei scoperto solo anni dopo che Bonelli-Nolitta aveva abbandonato il suo personaggio nel 1980) e invece sempre più attratto dai settimanali Eura e dall’avvento di Robin Wood, nemmeno sfogliai i primi albi del nuovo personaggio della Sergio Bonelli Editore (a quel tempo, Editoriale Daim Press).

La cosa curiosa è che, se l’avessi fatto, avrei trovato come minimo un paio di motivi d’interesse per provare a leggerlo: innanzitutto le tematiche affrontate, simili a quelle di alcuni autori che stavo divorando in quel periodo tra cui il Berlitz del Triangolo delle Bermude, il Kolosimo dei viaggiatori del tempo e, più in generale, i divulgatori delle teorie pseudoscientifiche sull’archeologia misteriosa; ma anche certi cliché stilistici che mi avrebbero fatto pensare “Questa roba l’ho già sentita…” e mi avrebbero fatto tornare con la memoria a “È un gioco d’ombre… o qualcuno sta strisciando silenziosamente verso Cico e Zagor?” (Zagor n° 153), oppure a “È un altro incubo… o qualcuno osserva nascosto nella fitta vegetazione?” (Mister No n° 24), o ancora a “È un’impressione… o sul volto immobile del vampiro si è dipinto un sorriso di trionfo?” (Zagor n° 189).

Eh sì… Se avessi sfogliato i primi albi di Martin Mystère, avrei scoperto che il suo creatore Alfredo Castelli aveva già scritto storie “mysteriose” (naturalmente, non firmate) per altre collane Bonelli. Cosa che invece scoprii soltanto molti anni dopo, visto che – quando tornai all’ovile bonelliano – mi concentrai per prima cosa sul recupero dei Tex e Zagor usciti nel frattempo e poi sull’acquisto di collane complete di cui avevo sentito dire un gran bene, quali Ken Parker e Storia del West. I pochi albi del Detective dell’Impossibile che mi era capitato di sfogliare fino a metà anni Novanta non mi avevano invogliato a un recupero integrale della collana, finché… finché non mi capitò in mano Tempo zero.

Con quell’albo provai quello che avevo già sperimentato con Dylan Dog e Nathan Never: anche Castelli, parlando di “mysteri”, parlava d’altro… ma in questo caso non si trattava di filosofie esistenziali (come per Sclavi su Dylan), né di tormenti interiori (come per Medda su Nathan): quello che mi attraeva in Martin, al di là della riuscita o meno della singola avventura, erano le descrizioni del protagonista nella realtà quotidiana, la creazione di un microcosmo che rispecchiava fedelmente la personalità del suo autore, la sua logorrea, i suoi “riti”, la sua enciclopedica erudizione. Martin era proprio Alfredo Castelli come Mister No era Sergio Bonelli – salvo le peripezie avventurose e le gesta acrobatiche, naturalmente, per entrambi – e ne ebbi conferma quando conobbi il Buon Vecchio Zio Alfredo nel corso di Lucca Comics 1997: alla richiesta di un autografo da parte del nostro Direttore di allora (uBC era nata l’anno prima), prima acconsentì un po’ svogliatamente, per poi cambiare atteggiamento appena scoprì la nostra identità. “uBC? Voi siete quelli di uBC? Potevate dirmelo prima! Ma allora vi faccio anche un disegnino, una dedica… Siete bravissimi, avete un bel sito, che ne direste di occuparvi anche del mio, che langue da un po’, non ho mai tempo di gestirlo come si deve…” E da lì in poi intavolò una chiacchierata di almeno mezzora, saltando da un argomento e un aneddoto all’altro e tenendo incatenata la nostra attenzione proprio come avrebbe potuto fare Martin (con meno pedanteria, a dire il vero).

Torniamo a Tempo zero, titolo del numero 47 di Martin Mystère (ma la storia, disegnata da Giovanni Freghieri, inizia nell’albo precedente e termina in quello successivo): la trama aveva indubbi pregi, a partire naturalmente dalla creazione dell’avversario per antonomasia di Martin, il diabolico Mister Jinx. Era inoltre eccellente l’idea alla base del soggetto: chi, ossessionato da impegni e scadenze, non vorrebbe avere l’opportunità di trascorrere un mese di relax mentre, per il mondo esterno, trascorre soltanto un giorno? E anche se mi sembrava che l’ottimo soggetto si perdesse un po’ per strada nello svolgimento della trama, nel complesso l’avventura era sicuramente godibile (e l’incidente d’auto finale lasciava la porta aperta al ritorno del villain, cosa puntualmente accaduta in séguito).

Ma non era la storia in sé ad avermi colpito così tanto, bensì – come dicevo prima – la descrizione della vita quotidiana e della personalità di Martin, dei suoi costanti “penultimatum” quando si tratta di mettersi al lavoro per scrivere un libro o un articolo per il suo editore, dei suoi cincischiamenti infiniti, dei mille motivi che lo portano a divagare invece di concentrarsi su ciò che deve fare. Illuminante la pagina 95 del numero 46: “Prima di cominciare un lavoro devo aspettare l’ultimo istante utile. Una descrizione che rispecchiava la poliedricità e la vulcanicità di Alfredo Castelli… e in cui mi riconoscevo in pieno: da anni, nel mio lavoro di traduttore a domicilio (ho sempre lavorato da casa, mooolto prima che lo smart working diventasse una necessità), mi riprometto di terminare la tirata per una consegna urgente e cambiare metodo per le consegne successive, mi riprometto di organizzarmi meglio e disperdermi meno, di evitare di ridurmi sempre all’ultimo istante utile… senza mai riuscirci, naturalmente. E mi riconosco anche in qualche altro tratto di Martin: una discreta logorrea, una vasta infarinatura su un sacco di argomenti (anche se non al livello sterminato di Castelli o del suo personaggio, beninteso), un’irrefrenabile tendenza alla divagazione. Tutte caratteristiche che potevano rendere Martin una macchietta – beh, OK, qualche volta Castelli ci ha giocato sopra – ma che in Tempo zero erano rese in modo estremamente realistico e mi avevano fatto immedesimare nel personaggio e nella sua angoscia per il tempo che fugge.

Fu così che recuperai i primi cento albi di Martin e, soprattutto, quelli con il ritorno di Mr. Jinx nella famosa avventura Operazione Dorian Gray (numeri 62, 63 e 64), disegnata anche in questa occasione da Freghieri. Ebbene, anche stavolta il soggetto era eccellente e la tematica del tempo che fugge diventava ancora più centrale, sia nella parte “avventurosa” sia – anzi, soprattutto – nelle riflessioni di Martin e Diana, che giungono a una crisi nel loro rapporto per la “sindrome di Peter Pan” che affligge Martin e per la difficoltà ad accettarsi per quello che sono. Di nuovo, mi riconoscevo nel protagonista e nelle sue paure, rese da Castelli con straordinaria sensibilità: era un processo di immedesimazione che non mi era mai capitato con altri personaggi dei fumetti e che, invece, con Martin riusciva alla perfezione. Tanto di cappello, Alfredo.

(Post Scrictum: questo articolo era stato programmato per mercoledì 19 gennaio, nell’àmbito della consueta alternanza tra le mie rubriche – una al mercoledì e una al sabato. Senonché… non riuscivo a tirare le somme e l’ho quindi posticipato continuamente, pubblicando altri articoli nel frattempo. Ho rinviato il problema fino a ieri notte, quando – all’ultimo istante utile per le pubblicazioni di gennaio – ho trovato la quadra e completato l’articolo. Proprio come avrebbe fatto Martin con la consegna al suo editore…)

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