Gli ultimi anni di pubblicazioni manga sono stati una vera benedizione per coloro che come me si appassionano più delle protagoniste che dei protagonisti.
Nella commedia adolescenziale (Non tormentarmi, Nagatoro!), nello shonen (Dandadan), nello slice of life ambientato nel mondo dello spettacolo con derive thriller soprannaturali (Oshi no Ko) oppure no (Akane Banashi), il cosiddetto “sesso debole” (ma cosa?!) ha saldamente piazzato il piede sul palcoscenico e imposto protagoniste con carisma a carrettate, cazzimma a diecimila e tanta voglia di poggiare un piede avanti all’altro sulla stessa strada del protagonista maschile, ove presente, senza sentirsi obbligate a stare dietro, davanti, al fianco.
Faccia quello che vuole il maschio, loro faranno il loro.
Certo, bisogna dire che in una cultura “leggermente” maschilista come quella giapponese (non che noi italiani si possa tirar giudizi, eh?), il manga è sempre stato un mercato culturale anomalo.
Difficile dire se sia per il potente mercato degli “shojo” (per i reclusi in un monastero sulle Alpi Apuane che sono scesi in permesso: manga destinati ad un pubblico femminile) che macina numeri che fanno impallidire gli “Harmony” (lo shojo più venduto in Giappone stampa in media 1,64 milioni di copie a volume), ma il dato di fatto è che a fianco delle “donne trofeo” e delle “principesse da salvare”, sono sempre state abbastanza frequenti figure femminili che anche quando si prestavano ad un fan service più o meno pesante davano l’impressione di “portare le tette per piacere a sé stesse, non al lettore”, come mi piace dire.
Certo, come avevo lamentato tempo fa non siamo ancora al livello di fenomeno soverchiante, soprattutto nel manga per maschietti, ma questo costante flusso negli ultimi anni è andato aumentando in maniera percepibile.
“I diari della speziale” (Kusuriya no hitorigoto, traducibile anche ne “I monologhi della speziale”) è un magnifico frutto di questa tendenza.
La protagonista, MaoMao, è un concentrato di decisione, scaltrezza, genio e attitudine pratica di chi ha accumulato molteplici esperienze in una relativamente breve vita e capito che “chi ha sempre ragione si fa nemici”.
Il tutto temperato da un connaturato senso di giustizia e da più coraggio e carisma femminile di quanto sarebbe lecito mettere in un corpicino acerbo (nonostante la quasi maggiore età) e tutt’altro che voluttuoso.
La narrazione – tratta dalla serie di romanzi di Natsu Yuuga – rigorosamente e attivamente inverte il noto principio del “non lo facciamo, lo diciamo” (grazie, Boris) e con i tempi e i modi necessari ci racconta come è venuto ad esistere questo concentrato di eccezionalità in grado di leggere, scrivere e praticare le arti farmaceutiche…
Parlando di tempi e modi, mi accorgo di essere saltato di palo in frasca e aver dimenticato di dire che MaoMao non è una “normale studentessa giapponese”, come spesso capita, ma una ragazzina rapita e “ceduta a servizio” alla “Città Interna”: ovvero l’harem di un non precisato imperatore cinese delle grandi dinastie.
In perenne ricerca di manodopera a buon prezzo, ci viene fatto intuire che i funzionari del reclutamento dell’epoca fossero piuttosto sbrigativi nell’acquisire nuove forze per contratti pluriennali da sedicenti “parenti” a cui anticipavano parte degli stipendi di cui la servitrice era “garanzia”.
La schiavitù era stata formalmente abolita decenni prima, ma “fatta la legge, trovato l’inganno” pare fosse usanza comune anche nel Celeste Impero.
Il lettore conseguentemente trova MaoMao già rassegnata a non poter tornare dal suo anziano padre adottivo per qualche anno, impegnata a fare il suo lavoro senza attirare sanzioni disciplinari, ma altrettanto attenta a non emergere in alcun modo e ad evitare assolutamente di far fruttare la sua erudizione: fosse mai che ai suoi rapitori arrivasse pure una gratifica.
Purtroppo per lei, se le cose fossero così facili dove sarebbe il divertimento?
Non ci vuole molto prima che MaoMao incappi nelle chiacchiere tra servette che parlano di una misteriosa maledizione che reclama le vite dei figli dell’imperatore già nella culla, maschi (maledizione molto facile da spiegare, visto che si parla di dominio su un impero sconfinato) e femmine (e qui già la cosa si fa meno spiegabile).
Come detto: pratica, intelligente fino al genio, erudita e, soprattutto, figlia adottiva di uno speziale, a MaoMao bastano poche ore di osservazione delle concubine e del loro ambiente per avere idee precise sulla natura della “maledizione” e sulla sua origine.
Incapace di stare con le mani in mano a causa di quel poco provvido senso di giustizia di cui si diceva prima, pensa di poter fare qualcosa dall’ombra.
Purtroppo per lei, non sa che nella Città Interna si muove il bell’eunuco Jinshi (si dà per scontato sia un eunuco, mai potrebbe un uomo “completo” che non sia l’imperatore o un suo parente strettissimo frequentare quei padiglioni), altro prodigio di carisma e intelletto che ha come dovere e piacere accertarsi che nessuna ombra si proietti sulla corte imperiale.
Il resto, come si dice, “è storia”: la storia de “I diari della speziale”, un duetto tra la infastiditissima MaoMao e il bel cicisbeo Jinshi, che è contemporaneamente duello tra due persone intelligentissime di cui la prima “non vuole saperne mezza” di essere coinvolta nel “caso del giorno” e il secondo che capisce quasi ad istinto quali leve muovere per coinvolgerla.
Una commedia di geni estremamente “regolati”, che però inevitabilmente hanno le loro debolezze e le loro anormalità: dal feticismo malsano di MaoMao per i veleni, alle degenerazioni infantili di Jinshi.
Ed è anche, come si diceva, un avvincente “giallo storico” che vede due menti inquisitive e determinate non ricorrere a mezze misure quando si tratta di risolvere situazioni che lasciano i coevi sconcertati e timorosi.
A questa storia il tratto di disegno di Nekokurage, pseudonimo di Erika Ikeda, calza proverbialmente a pennello rendendoci tanto le leziose atmosfere del gigantesco quartiere-harem, quanto quelle del confinante quartiere dei piaceri dove MaoMao è cresciuta e ha costruito le basi del suo carattere e della sua educazione, sottolineando ed esaltando l’espressività della nostra apparentemente banale protagonista, capace tanto di atteggiare il suo volto carino ma non bellissimo ad un sogghigno sarcastico, quanto a renderlo una maschera da erinni quando qualcuno si spinge oltre il consentito, fino all’assumere espressioni concupiscenti al limite della lussuria quando può mettere le mani su composti rari e, possibilmente, letali.
La “regia” è esattamente quella che ti aspetti da un classico “whodunit”, con tante figure intere e piani americani, prevalentemente in interni disegnati con gran dettaglio e uno scandire lento e chiaro delle inquadrature che seguono il ritmo dei dialoghi e degli scambi di informazioni.
Tutta l’opera si colora quindi della personalità della protagonista e – come il curioso Jinshi che molto spesso ci fa da avatar in scena – ne siamo avvinti e attratti e siamo disposti a mettere a tacere con uno sguardo seccato l’incredulità che ci fa notare quanto poco sia credibile che una tardo-adolescente con un’istruzione empirica da speziale si muova con disinvoltura tra farmacologia, medicina, fisioterapia, metallurgia e, ad un certo punto, persino moderne tecniche investigative come la ricerca di impronte digitali.
Seguiamo divertiti questa giovane Jessica Fletcher, dai modi compassati e adulti e dal senso dell’umorismo sempre in bilico tra empatico e crudele, nella sua ricerca di nuovi guai in cui cacciarsi mentre ostinatamente cerca di convincere – sé stessa prima ancora che noi – che vuole solo finire il suo servizio tranquilla e tornare quanto prima alla sua famiglia di elezione.