«E di colpo venne il mese di febbraio», cantava l’immenso Franco Battiato in Alexanderplatz.
Nel nostro caso, a giungere improvvisa, a ritornare del tutto inattesa, è la luna di giugno.
Precisamente dell’anno 1988.
Sì, perché sfogliando le pagine di questo quarantesimo albo speciale di Tex, si finisce inevitabilmente per scivolare indietro nel tempo, a quell’estate di quasi otto lustri fa: calda, sicuramente, ma dal piglio assai meno feroce dell’attuale.
Non per i testi, è bene chiarirlo subito.
La storia immaginata e narrata da Rauch non esibisce né questo, né nessun altro potere particolare. Ha il pregio di scorrere rapida e leggera, certo, di andar giù come l’acqua di un bicchiere capiente. Ma è l’unico. Poiché si tratta di un’acqua a temperatura ambiente salentino, che non sa dissetare, che sgorga da un’idea ormai sentita, da una sceneggiatura accattivante come può esserlo un’ennesima, difettosa imitazione di inarrivabili capolavori.
Tucson, Arizona.
Rex Gorman, affarista e proprietario terriero, ha scoperto di essere stato derubato: documenti tanto importanti quanto compromettenti sono passati dal comodo rifugio di una cassaforte nelle mani di Selina Sanchez e del suo compagno, Billy Riker. Ottenuta senza eccessivi patemi l’eliminazione di quest’ultimo, il ricco possidente – per scrollarsi di dosso il giogo del ricatto – pretende che anche la donna venga catturata. Marston, il suo braccio destro, affida tale compito al migliore dei cacciatori di uomini in circolazione, lo yaqui Jim Cruz. Quando le cose sembrano seguire docili il loro ineluttabile corso, quando Selina è già nelle grinfie dell’imponente indiano, ecco l’evento che rimette tutto in discussione: osservando una bruciatura sul collo della giovane, Jim riassapora il gusto acre della sua prima giovinezza, riconoscendo in lei la propria compagna di sventura, la bambina che ne ha condiviso la sorte, che è cresciuta con lui – in realtà figlio di messicani – dopo essere stata rapita e resa orfana dallo spietato capo yaqui Cuchillo Negro. Decide perciò di tenerla con sé, di rinunciare all’incarico.
Tex e Carson, intenti a braccare al fianco dell’agente Pinkerton Ben Summers una banda di rapinatori capeggiata da John Riker – fratello di Billy -, vedono presto la pista battuta intrecciarsi con quella di Selina, di Jim e degli sgherri di Gorman lanciati al loro inseguimento, la propria caccia mutare lesta in una corsa i cui concorrenti cadono inesorabilmente uno dopo l’altro, in cui a portarsi via sul petto il filo del traguardo è la plastica estrinsecazione del loro concetto di giustizia…
I protagonisti
Questi, nell’essenziale cornice di una sintesi, i lineamenti di un’avventura destinata a essere ben presto preda delle gelide correnti dell’oblio, nella quale a risultare davvero protagonisti sono i dialoghi efficaci a intermittenza, incapaci di lasciare concretamente il segno nonostante il loro tenace tentativo di rispolverare e mettere in scena la maggior parte dei più classici topoi texiani; i brevi flashback utili a spiegare ciò che era lampante anche al più disattento dei lettori (pp.178-180), l’avvilente bidimensionalità, l’assoluta pochezza della quasi totalità dei nemici dei nostri, la sconcertante scelta di Tex di provare a eliminare lo yaqui sparando ad altezza d’uomo al centro di una tenda dietro cui pensava si stesse nascondendo; la completa mancanza di pathos – il vero “mistero”, alla fine, è stata la natura dei documenti sottratti a Rex Gorman… -, i raggelanti scambi di battute tra Jim Cruz e Aquila della Notte («Adesso ti uccido!», annuncia sicuro il primo, «Non credo proprio!», ribatte piccato l’altro; «Sei tosto! Ma lo sono anch’io!», chiarisce fiero e provato il ranger, «Lo vedo…», ammette di malavoglia il cacciatore di uomini), perfettamente in grado di devastare senza pietà il loro lungo duello finale – il solo momento in cui i denti del capo dei Navajo si sono visti costretti a darsi da fare per dare il doveroso benvenuto al pane sfornato apposta per loro…
Qualcosa di diverso
A unire passato e presente, dunque, sono stati i disegni di Giuseppe Palumbo.
È stato il suo inconfondibile stile a far riemergere dagli strati più profondi della memoria le parole che presentavano Tex il Grande!, che descrivevano la logica di quel progetto editoriale «molto voluto» da Sergio Bonelli e all’epoca non ancora pienamente definito, che ne erano il manifesto, ne illustravano la logica. In quel primo giorno di giugno del 1988, dalle pagine introduttive del Texone numero 1, Decio Canzio spiegava che «l’idea è invece quella di chiedere ad alcuni “grandi” del disegno di misurarsi con il personaggio di Tex Willer, per offrire ai lettori nuove interpretazioni del protagonista, dei suoi comprimari e del suo mondo», che «la verità è che con questo numero del quarantennale proviamo a sondare le reazioni dei lettori di fronte a qualcosa di diverso».
Qualcosa di diverso, già.
Nessuna definizione migliore per qualificare a dovere le duecentoventiquattro tavole prodotte dal disegnatore materano. Il suo West – il primo della sua carriera – è un West atipico, fortemente personale, dove ogni elemento, ogni singolo dettaglio prende vita dopo avere attraversato le strettissime maglie del cribro della sua peculiare maniera di concepire il genere narrativo oggetto del suo impegno. Dove il buon dinamismo che bagna la storia per l’intera sua durata, la ricchezza di particolari delle vignette, la valida determinazione della figura di Jim Cruz (il cui viso è quello di uno yaqui realmente esistito, immortalato dal fotografo, esploratore ed etnologo statunitense Edward Sheriff Curtis), l’ottima resa del pueblo di Sancta Magdalena, delle Sierrita Mountains e, in generale, degli esterni – in questo, ammette l’autore, sono state le sue origini a fornirgli una generosa mano, dato che «Matera è un canyon», con le sue «grandi rocce, altipiani, cespugliazzi», «è un pueblo inserito nel costone di questo canyon. Quindi mi sembrava di stare a casa» –, non bastano a celare l’aspetto troppo “lucido”, non di rado ingessato degli attori e delle ambientazioni, privi della polvere, dello sporco, del sudore che caratterizzavano quegli splendidi, mitici scenari; l’inadeguatezza della recitazione dei personaggi, assai spesso sciorinanti bocche e occhi spalancati, espressioni esagerate, vicine, molto vicine al limite del grottesco; la raffigurazione non sempre esatta degli Stetson indossati dagli inseparabili pard, dei Winchester e delle Colt e quella pessima dei calci di queste ultime, sia quando impugnate, sia all’interno delle fondine dalla stranissima foggia terminante a punta nella parte superiore ed evidente fin dalla non esaltante copertina dell’albo; soprattutto l’inquietante volto di Tex, con i suoi occhi dal taglio a metà strada tra l’alieno e l’orientale, la sua lunghezza sovente anomala, il suo naso dalle narici larghe (comuni ad altri soggetti della vicenda…) e la mandibola pronta a far crepare d’invidia perfino il dimenticabile e dimenticato Ronn Moss…
Quindi sì, Palumbo è stato veramente un qualcosa di diverso.
Di estraneo a Tex.
Ma – proprio come avvenne per «l’insolito», per «l’iconoclasta» Guido Buzzelli – allo stesso tempo perfettamente rientrante nell’alveo scavato dalle frasi di Canzio. Sierrita Mountains è stata la sua interpretazione dell’universo di Aquila della Notte. L’interpretazione confezionata dalla sua mente, dalle sue mani, dalla sua sensibilità artistica.
Ed è stato bello poterne godere appieno, senza “censure”, senza quegli interventi chirurgici redazionali troppo a lungo affidati agli affilati pennelli di specifici disegnatori della serie regolare che, nel tentare di correggere il volto di Tex, di obbligarlo a rientrare nei sacri canoni mandati in stampa mese dopo mese, finivano per contraddire e annullare il fascino e l’originalità di quel progetto in principio impreciso, di quel manifesto scritto a Milano al tramonto del penultimo decennio del secolo scorso.
Solo che…
Beh, solo che non si può non dedicare un pensiero a chi questa fortuna non l’ha avuta, a chi quegli assurdi, odiosi e antiestetici interventi di chirurgia plastica li ha dovuti subire; a maestri della Nona Arte del calibro di Victor De La Fuente e Colin Wilson – a esempio -, il cui magnifico lavoro è stato offeso da quegli insensati ritocchi. Anche a loro – vien facile crederlo – sarebbe piaciuto che tutto, per i propri Texoni, fosse andato secondo quella logica di fine Novecento…