Quattro chiacchiere con Pasquale Frisenda

Intervista a distanza con uno dei protagonisti dell'annata appena trascorsa

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Non ha di certo bisogno di presentazioni Pasquale Frisenda, uno dei più apprezzati disegnatori del panorama fumettistico nostrano (e non solo!) e già nostro gradito ospite in una bella intervista di qualche tempo fa.

Protagonista in diverse serie bonelliane (Ken Parker, Magico Vento, Tex, Dylan Dog e Deadwood Dick) è stato recentemente vincitore insieme a Michele Medda nei nostri uBC Awards 2024 per Il deserto dei Tartari, con il premio assegnato direttamente dalla Redazione come Miglior Graphic Novel nella categoria “Bonelli”.

Innanzitutto grazie della tua disponibilità per questa intervista e benvenuto su Magazine uBC. L’anno appena concluso ti ha visto grande protagonista con le uscite del tuo Artbook per i tipi di Cut-Up Publishing, lo sbarco negli Stati Uniti di Sangue e ghiaccio grazie a Epicenter Comics e, ovviamente, Il deserto dei Tartari con i testi di Michele Medda per la Sergio Bonelli Editore: che bilancio stili?

Grazie a voi per l’attenzione e lo spazio che mi dedicate, e per il resto direi che il 2024 è stato per me di sicuro un anno importante a livello professionale, in cui hanno visto la luce diversi progetti portati avanti parallelamente e a lungo.
Se all’edizione statunitense di Sangue e ghiaccio ho collaborato in maniera solo marginale, mettendo a disposizione diversi disegni extra, tra studi e tavole inedite, per l’artbook edito dalla Cut-Up l’impegno è stato invece decisamente maggiore, considerando che le 100 pagine del volume contengono moltissimo materiale mai pubblicato in precedenza. Si è trattato quindi di fare una mirata selezione dei lavori fatti in quasi trent’anni di carriera, ma inserendo anche dei disegni realizzati poco prima di iniziare a lavorare nel settore. 
In cima a tutto questo restava però la conclusione del lavoro sul volume de Il deserto dei Tartari, che ha richiesto una profonda partecipazione per riuscire a tradurre in immagini un testo così particolare.
La sua uscita in libreria è stata accolta per fortuna con non poco calore, una cosa che mi ha fatto piacere, ovviamente, e che ripaga sempre di ogni sforzo fatto sulle tavole.

Ripensando a quando, diversi anni fa, è partita l’idea di realizzare Il deserto dei Tartari, ti ritieni soddisfatto del percorso seguito dal progetto?

Quello sviluppato sulla versione a fumetti del Deserto è stato di certo il progetto più complesso da me affrontato fino ad ora, anche per il periodo in cui l’ho gestito, non facile per diversi motivi.
Dopo aver ricevuto il via libera da parte della casa editrice, mentre Michele Medda stava scrivendo la prima versione della sceneggiatura, io preparavo gli studi necessari per definire l’aspetto dei personaggi, dei luoghi e di vari dettagli; un corposo dossier, utile per sottoporre le idee che avevamo in mente agli eredi Buzzati, che erano coinvolti nella supervisione del lavoro, ma già durante quella primissima fase mi ero reso conto che l’ampia ricerca avviata sulla documentazione mi stava portando a considerare aspetti non messi in conto in maniera preventiva. Alla fine il tutto si è riversato nelle tavole dando forma a una sorta di “lettura parallela” a quella della storia principale, composta da elementi grafici, tra riferimenti diretti alla vita e alle opere di Dino Buzzati, oppure dipinti, citazioni e rimandi ad altri autori, o ancora simboli legati alla questione del tempo che passa e che contribuiscono ad arricchire le vignette di significati diversi e particolari, con la speranza che l’insieme possa magari spingere i lettori a fare ulteriori e autonome ricerche, in modo da non esaurire l’esperienza di quella lettura unicamente nel libro.

Un tipo d’impegno che per me si è rivelato essere molto formativo, anche per il continuo scambio avuto con Michele, che è stato sempre pronto ad accogliere e discutere le idee che gli sottoponevo per delineare graficamente alcuni passaggi narrativi, oppure a evidenziare dei dettagli migliorabili nelle vignette (e molte tavole sono state alla fine rifatte o modificate, spesso per mia iniziativa).
Del risultato ne sono soddisfatto, sì, anche se, per l’indole che mi caratterizza, potendolo fare tornerei ancora oggi a ritoccare alcune tavole.

Sono del parere che il graphic novel, il romanzo di Dino Buzzati e, principalmente per la parte scenografica, anche il film che ne trasse Valerio Zurlini siano tre opere complementari tra loro: sei d’accordo?

Lo sono di certo, a cui aggiungerei anche le non poche versioni teatrali date al romanzo e anche le canzoni che ha ispirato, come Zangra di Jacques Brel o Fortezza Bastiani di Franco Battiato. Inoltre, pur se il libro di Buzzati resta ovviamente il punto fermo di questa piccola galassia narrativa, ogni interpretazione ulteriore può aggiungere un punto di vista diverso, magari nuovo, inaspettato, legato alla sensibilità delle persone che si approcciano ai temi che contiene.

Facendo diversi passi indietro nel tempo, un’opera che mette d’accordo tutti i texiani (e non solo) è senz’altro Patagonia: quali sono i tuoi ricordi della lavorazione di quel mitico Texone?

Patagonia è stato un tassello fondamentale per la mia carriera e per la mia crescita professionale, e mi permise, tra l’altro, anche di lavorare per la prima volta a contatto con Sergio Bonelli, che si occupò della revisione e del possibile sviluppo di alcuni passaggi narrativi. Non avevo considerato di poter un giorno arrivare a realizzare un texone, e quando mi arrivò la proposta la cosa mi sorprese non poco – anche perché ero ancora piuttosto giovane – e fui tentato di non accettarla, ritenendo l’impegno oltre le mie possibilità di allora.
Una volta iniziato il lavoro, ricordo che mi bloccai quasi subito, non riuscendo a trovare un modo per approcciarmi al personaggio; un’impasse che superai dopo una telefonata di Bonelli, che mi incoraggiò molto.
Il progetto diventò comunque e rapidamente molto appassionante da affrontare, anche se presentava difficoltà che occorreva superare in tempi brevi, a cominciare dal particolare contesto: la storia si svolge nell’Argentina di fine ‘800, cosa che annullava all’istante tutta la documentazione sul West che avevo raccolto nelle mie precedenti collaborazioni a serie di genere western, quindi Ken Parker e Magico Vento.

Non mi fu facile mettere a fuoco quegli ambienti, sia naturali che urbani, come anche definire l’aspetto dei soldati, dei nativi e dei gauchos, i tipici cow-boys di quelle terre.
Diversa documentazione mi venne messa a disposizione da Sergio Bonelli, aiutandomi molto ad entrare con la testa nelle atmosfere giuste, a cui aggiunsi poi una costante ricerca, proseguita per tutta la durata del lavoro.

Per tenere un livello qualitativo stabile e coerente dalla prima all’ultima tavola, nonostante gli anni passati (quasi tre) tra l’una e l’altra, il Texone risultò essere un lavoro totalizzante ma, alla fine, il giudizio positivo espresso da Bonelli (che mi fu riferito subito dopo la tradizionale lettura che faceva prima che il materiale andasse in stampa) e il riscontro confortante avuto dai lettori e da molti colleghi, mi sollevò da ogni fatica spesa sulle tavole.

Patagonia è un volume a cui resto legatissimo, e che personalmente considero una sorta di vero e proprio regalo, del tutto inaspettato, arrivatomi da Bonelli ma anche da Decio Canzio, altra figura a cui devo molto e che in quegli anni era il direttore editoriale della casa editrice.

A proposito di SBE, secondo te quanto si sente oggi nel panorama del fumetto la mancanza di una figura come quella di Sergio Bonelli?

La situazione attuale del mercato del fumetto è terribilmente complessa, e avrebbe probabilmente spiazzato anche un editore con l’esperienza di Sergio Bonelli, anche per una questione generazionale, di certo; quindi un cambio di passo era di sicuro necessario e forse avrebbe dovuto orientarsi verso direzioni che non amava… però, detto questo, direi che la sua assenza si avverte e pesa eccome, non solo da un punto di vista legato alle dinamiche del settore ma, sopra ogni cosa, per un certo modo di porsi, cosa che oggi è davvero merce rara e la cui mancanza fa perdere equilibrio nei rapporti professionali.

È risaputa la grande meticolosità che utilizzi nel tuo lavoro: quanto ami curare ogni dettaglio delle tue tavole?

Sono abbastanza esigente sul lavoro, sì, ma l’attenzione che pongo non è tanto verso i dettagli (nel senso della scrupolosa riproduzione di un oggetto), quanto più per raggiungere attraverso il disegno le immagini che ho in mente e che, secondo il mio punto di vista, possono risultare efficaci nel comunicare un’emozione ai lettori, che è poi la cosa a cui punto maggiormente.
Nello stile grafico che propongo si incrociano influenze stilistiche molto diverse, anche in contrasto tra di loro, volendo, e che cerco di riformulare e amalgamare a mio modo dando spazio a vignette a volte ricche di dettagli, suggerendo un’impressione molto materica delle cose, e altre invece decisamente sintetiche, quasi eteree, dove è solo l’atmosfera la parte importante.
In alcuni casi sul foglio arriva subito quello che si desidera; in altre occasioni invece la traduzione in disegno delle idee è cosa più complessa e necessita una maggiore ricerca e il mettere in conto diversi tentativi, dunque nel fare e rifare di continuo vignette o tavole cerco solo di trovare le soluzioni più adeguate per raggiungere l’obiettivo sperato.

Io disegno con strumenti tradizionali, quindi ogni rifacimento richiede tempo, ma è anche un modo utile per crescere come disegnatore, imparare dai propri errori perché correggerli comporta fatica e i percorsi mentali che si innescano per superare le lacune che si hanno fanno maturare il proprio modo di disegnare, liberandolo dal rischio di un’eterna ripetizione.
Inoltre cerco sempre di adeguare per quanto è possibile il mio stile alle esigenze della storia che devo disegnare (ad esempio, per Deadwood Dick e Il deserto dei Tartari ho usato un segno diverso: più marcato nel primo caso, più sintetico nel secondo), e anche questo procedimento non arriva automaticamente ma attraverso prove e riflessioni.

C’è un particolare autore col quale non hai mai collaborato e con cui ti piacerebbe lavorare?

Oh, in tal senso ce ne sono molti… davvero tanti, e fare un elenco sarebbe anche impegnativo. Cito solo due autori con cui avrei desiderato lavorare e dove era anche in previsione una collaborazione, poi sfumata a causa della loro scomparsa: Gino D’Antonio e Sergio Bonelli.
Avevo anche fantasticato su quelle possibili storie, restate poi solo rimpianti.

Partecipi di sovente a fiere ed eventi a tema comics: qual è il tuo rapporto con i lettori?

In realtà non mi muovo molto nelle manifestazioni dedicate al fumetto, ma l’anno scorso è andata diversamente proprio per l’uscita quasi contemporanea dell’Artbook e del Deserto, quindi ho cercato di essere un po’ più presente. Il rapporto con i lettori direi che è sempre molto cordiale, e in non pochi casi alcuni di loro mi hanno anche sorpreso portandomi vari omaggi, tra cui la miniatura composta da dei modellini fatti a mano che riproduceva una mia copertina.

So che sei un grande appassionato di cinema: quali sono le tue preferenze? Ti è mai capitato di utilizzare alcuni spunti per il tuo lavoro di disegnatore?

Sì, il cinema è un interesse che coltivo da tempo: sono tutt’altro che un esperto, intendiamoci, ma – per come posso – cerco di approfondire il lavoro che c’è dietro diverse opere e quello di molti autori.
Non ho particolari preferenze e provo a vedere un po’ di tutto, in modo da allargare e completare il più possibile un mio personale background.

In non poche occasioni, alcune idee e suggestioni notate in vari film sono poi arrivate nelle tavole, a volte solo come possibili atmosfere, in altri casi come citazioni dirette. Giusto per fare alcuni esempi: diverse ambientazioni dell’episodio di Magico Vento intitolato Windigo le ho tratte di peso da alcune scene del film Manto nero di Bruce Beresford, mentre nell’episodio intitolato Il mostro di Hogan, sempre della serie di Magico Vento, sono presenti spunti presi dalla versione di Dracula del 1931 diretta da Tod Browning… Invece, per una breve storia intitolata Lontano dalla pioggia, pubblicata su un numero della rivista “Alta fedeltà”, mi ha aiutato la visione di un film come Christiane F. – Noi i ragazzi dello zoo di Berlino di Uli Edel, mentre per disegnare Deadwood Dick ho dato un’occhiata a diversi spaghetti western consigliati da Maurizio Colombo, tra cui Keoma di Enzo Castellari.

Un tema caldo: Intelligenza Artificiale. Qual è il tuo parere dell’uso che se ne fa, specie riferito alla tua professione?

La questione sulle AI è complessa, e ovviamente da settore a settore il loro uso offre risultati molto diversi.
Per quanto riguarda quei contesti legati all’espressione umana – siano essi il cinema, la letteratura, la fotografia, la musica, l’illustrazione, il fumetto o altri – il discorso però fa leva su alcuni punti in particolare, molto delicati e che dovrebbero essere sempre ben considerati: la negazione dei diritti d’autore legati alle opere utilizzate dalle AI, e il serio rischio di far scomparire ogni impulso creativo nelle generazioni future per via di un mezzo che non richiede più di possedere un qualche tipo di talento, predisposizione, abilità e professionalità.
Tutto viene composto in pochi minuti, a volte pochi secondi, semplicemente digitando alcune parole: abbattendo tempi e costi, certo, ma andando a desertificare un mondo vasto e articolato, quello dell’immaginazione, che non si dovrebbe ridurre solo a una questione di denaro ma che è vitale per moltissime persone, anche per chi è solo un fruitore di quel tipo di percorsi e che, da qui in poi, può trovarsi sommerso da un’enorme quantità di materiale da scegliere ma sempre più omologato, algido, industrializzato.

Tutto questo richiedeva una regolamentazione a monte, prima di rendere disponibile una tale tecnologia, perché in questo caso si tratta di un punto di non ritorno. Ma così non è stato e i risultati li possiamo vedere quotidianamente in internet, con migliaia e migliaia di immagini generate con le AI praticamente ogni giorno, che spesso danno un corposo contributo anche alla diffusione di fake news sempre più incontrollabili, cosa che ha una ricaduta inevitabilmente negativa su un piano sociale e politico.
C’è chi dice che le AI potrebbero essere utilizzate per trovare degli spunti, delle idee su cui poi lavorare sopra, ma temo che si stiano illudendo e non credo che un’azienda sia disposta a investire denaro sul lavoro di un illustratore per ricevere un risultato che al 90% potrebbe ottenere da sola e quasi gratis, e questo al di là di ogni discorso qualitativo, che davanti a procedimenti simili diventa irrilevante.
La sostanziale differenza che passa da cosa è progresso a cosa è sviluppo: nel secondo caso, non sempre porta un vantaggio.

Progetti futuri?

Progetti non mancano, per fortuna, e in questo periodo ne sto seguendo un paio, sia per la Francia che per l’Italia, che sono in via di definizione.
Non saranno cose semplici da elaborare, ma è davvero ancora troppo presto per parlarne.

Ringraziamo Pasquale Frisenda per la cortesia dimostrata, augurandoci di vedere presto pubblicati i suoi lavori in cantiere.

Stefano Paparella

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