Un’esile speranza

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Un nuovo ritorno? Soltanto se, per l’occasione, la bacchetta passerà in un’altra mano. Diversamente, che Mefisto e Yama restino dove sono!

<<Ricordate?>>

Era con questa semplice domanda che con imperscrutabile cadenza Gianluigi Bonelli riprendeva ago e filo e cominciava a intessere un nuovo capitolo dell’infinito, splendido scontro tra Tex e il grande Mefisto. E per chi reggeva tra le mani quegli albi indimenticabili era sufficiente la vista e il suono di quelle nove lettere accompagnate da quella specie di amo capovolto per sprofondare nelle acque tiepide e cristalline di uno scenario magnifico, fatto di magia nera e piombo incandescente, popolato da teschi ammonitori e amuleti, da topi famelici e manicomi, da orride streghe e sciamani, da incubi e visioni, da velieri maledetti e rovine di castelli medievali; da Hualpai, Navajo e Seminole, da paludi e stupende sacerdotesse, da colpi di cannone ed esiziali dardi avvelenati; da ricchi haitiani e figli di antiche genti ormai scomparse, da lugubri note di un piano e l’inconfondibile voce della dinamite, da risate intrise di follia e oscuri rituali; e da un odio inestinguibile, capace di sopravvivere alla morte, di sfidare e vincere le leggi umane del tempo e dello spazio…
Pagine superbe, sublimi, inarrivabili.

Ricordate, quindi?
Bene, è importante.
Poiché per commentare in estrema sintesi l’ultimo atto del suddetto scontro – andato in scena da aprile a ottobre dell’anno appena trascorso – basterebbe avere l’ardire di scomodare la bravissima Sandra Mondaini per chiederle in prestito uno dei più celebri frammenti del suo repertorio. E lasciarsi andare a un benefico «che noia, che barba! Che barba, che noia! Perché… è successo qualcosa in quei sette numeri? Oh, guardate che io sono stufo, eh!».
E per forza!
Tutto risulta dannatamente costruito, spiegato e rispiegato, senza pathos, senza fascino, senza… senza un bel nulla da tenere volentieri a mente! Senza nulla che susciti l’istintivo desiderio di essere rivisto, che abbia contribuito ad allargare realmente, fosse pure di un solo centimetro, i confini di quella leggendaria epopea creata dal papà di Aquila della Notte.
Vero, ci sono due prime volte.
Due prime volte assolute.
Ma nonostante possano vantare tale innegabile carattere, da sole non bastano a contraddire, a scardinare i concetti appena espressi. Non ne hanno la possibilità, non ne hanno la forza. Esistono, si fanno notare. E perciò meritano di essere menzionate.
Niente di più.
Il riferimento è a due incontri mai avvenuti prima: quello tra Tex e Padma (nell’avventura intitolata Incubo!, Tex 78-80, il secondo appare al ranger nella sua forma astrale, incorporea) e l’altro, decisamente più significativo, tra Yama e sua zia Lily.
Discorso chiuso, dunque?
No.
È agevole rendersi conto del fatto che un’estrema sintesi mal si attaglierebbe a una storia del genere, attesa per quasi venti anni. E per giunta lunga ben 786 pagine (Il trionfo di Mefisto, il numero conclusivo, ne conta sedici in più del solito).
E allora proviamo a tornare dentro di essa, a seguire il suo filo dipanarsi lento tra la California e l’Arizona, tra le bellissime sponde del lago Tahoe e le colonne della casa del Morisco a Pilares, in Messico.

L’impero del male

San Francisco.
È nella carne viva di questa città che Steve Dickart ha affondato le sue unghie scellerate. Nessun desiderio di vendetta, stavolta; nessuna voglia disperata di catturare Tex, Carson, Kit e Tiger Jack per osservarli morire tra atroci tormenti. Soltanto quella assai più prosaica di impadronirsi di quel fazzoletto di terra steso contro i venti del Pacifico, di farne la capitale indiscussa del suo impero del male. Così, ricorrendo alle arti oscure e indossando i panni sottratti al vero direttore del Black Mountain Asylum, egli, mentre tenta di liberare Yama dalla pazzia di cui è prigioniero, si offre al pubblico come medico geniale, come psichiatra capace di superare di slancio i vecchi metodi di cura delle malattie del cervello umano, di trasformare, placare e riconsegnare al tessuto sociale, grazie alle sue terapie innovative, persino la mente dei più feroci e incalliti criminali. Niente processo, niente forca per costoro: unicamente i suoi trattamenti speciali, prodromici a un tranquillo impiego tra le imponenti mura del manicomio… Ed ecco Ruth Wilson, sadica infermiera; ecco London Crabbe, strangolatore, Duke, artista dell’inganno, Somerset, sventratore, Lorna, locandiera assassina, Hsiang Tao, esperto di veleni, José Medina, rapinatore e virtuoso del machete: ecco alcuni dei personaggi del suo abominevole presepe, le maglie più strette della rete lanciata sul destino di Frisco, le braccia da guidare durante furti e omicidi. Accanto a essi, tra stanze imbottite e camicie di forza, uomini e donne facoltosi fatti credere pazzi con la complicità dei familiari per sottrarre loro le ingenti ricchezze di cui dispongono. Infine Tom Devlin, l’incorruttibile capo della polizia: per lui, nel suo schema di conquista, il dottor Stephen M. Weyland ha ritagliato un ruolo determinante: quello di fantoccio, di individuo di cui annientare la volontà, facilmente manipolabile; e per questo molto più utile da vivo che da sepolto sotto due metri di terra.
Sembra aver pensato davvero a tutto, Mefisto.
Però, per quanto possa essere un asso nel confezionare pentole, non riuscirà mai a tapparne la bocca con adeguati coperchi… Già, perché Tex e i suoi pard, sulle tracce di Gradmore, il “macellaio di Mission District”, stanno per incrociare la sua pista…

Il “gran concerto”

Mefisto!

Il sipario freme, si apre.
Ha inizio il “gran concerto”.
Virgolette d’obbligo, naturalmente. Poiché l’evento – il più importante nel cartellone texiano degli ultimi quattro lustri – non tarda a smorzare bruscamente gli entusiasmi, a far virare verso un inquietante pallore l’iniziale rosso acceso dipinto sui volti degli spettatori, a rafforzare progressivamente in loro la convinzione che non potranno che uscire dalla sala in compagnia delle loro aspettative deluse…
È già l’attacco a non persuadere: se suona quantomeno strano l’ingaggio da parte di Devlin del Quartetto Willer solamente per far echeggiare incessantemente e a tutto volume la suadente melodia della giustizia nelle orecchie di un avanzo di galera del calibro di Gradmore – che «non si distingue certo per intelligenza…», ammette candido lo stesso Tom, e la cui identità era peraltro ormai nota alla polizia -, risulta del tutto stonato, a quel punto, l’assolo di Mefisto: registrata la presenza in città della sua nemesi e non avendo l’intento di attirarne l’attenzione, per quale motivo finisce invece per portarsela direttamente in casa scegliendo di non rinunciare ai servigi dell’affatto indispensabile “macellaio”? Per quale arcana ragione lui, che conosce Tex alla perfezione, si illude di potergli strappare impunemente l’osso che ha ben saldo tra i denti?
Note stridule, disarmoniche.
Presenti tra i righi e gli spazi dell’intera partitura.
Capaci di procurare fastidio.
Non degne dell’incantevole teatro che le ospita, del meraviglioso universo di Mefisto e di suo figlio Yama, del suo intimo mescolarsi con quello di Aquila della Notte fino a fondersi con esso.
Boselli, bacchetta di direttore tra le dita, conferma – dopo la pessima Il segno di Yama (Tex 673-675) – di non averne colto le meccaniche bonelliane, di non averne compreso appieno i significati più autentici. Di non averne captato le inconfondibili sfumature. Di non averne assorbito l’essenza.
I suoi Steve e Blacky Dickart sono esangui, malriuscite imitazioni dei fantastici professori d’orchestra partoriti dalla geniale immaginazione di Gianluigi Bonelli.
Ne hanno le sembianze, sicuro.
Ma non l’anima.
Non l’originale linfa vitale.
Non l’odio implacabile verso Tex e i suoi uomini.
Quell’odio che fin dal principio ne ha reso logore le vene, che ne ha incessantemente condizionato pensieri e decisioni, che non ha concesso loro un attimo di pace; quell’odio nato nel «tempo in cui i bagliori degli incendi rischiaravano le notti lungo il territorio fra il Texas e il Messico…», quando Tex indossava «un costume nero e una maschera nera… come il bandito Montales» (La gola della morte, Tex 39-40); quell’odio che fu in grado di condurre Aquila della Notte più di una volta a un passo dalla caduta, a sparare contro suo figlio e Kit Carson, a credere per ben due mesi di averli perduti per sempre…

Kit Carson e Tex Willer

Tra le mille vignette di questa storia essi non mancano di mostrarsi pericolosi, sanno mettere in ambasce i loro nemici. Però quando giunge il momento di chiudere i conti e colpirli al cuore, eccoli naufragare con un tempismo che farebbe invidia al più preciso degli orologi.
D’accordo, a loro vincere non è permesso, non ci riusciranno mai.
È la loro sorte ineluttabile.
È così che è scritto, da prima che nascessero.
Ciò che offende, tuttavia, è la maniera in cui vengono sconfitti, il loro sistematico fallire, il loro essere costretti a subire miseramente, a sopportare con oscena regolarità l’onta derivante dal collezionare errori inammissibili, complici ridicoli (emblematica la creatura demoniaca che si fa fermare da un colpo sferratole col calcio di un fucile…) e conseguenti bruttissime figure; ad abbandonare il palcoscenico senza un modo che, nell’esaltare l’ardimento di Tex e soci, ne tuteli fino in fondo l’indubbia dignità, la folle intelligenza, gli enormi poteri, l’immenso valore. Senza un modo che sappia trattare con il dovuto rispetto la materia di gran pregio con cui la mirabile penna dello scrittore milanese classe 1908 ha plasmato queste perfette incarnazioni del male supremo.
Un esempio?
Meglio tre.

Mefisto, dopo aver imprigionato Aquila della Notte e Kit Carson e averli fatti assicurare mani e piedi a un piano in legno, compie sia l’assurda scelta di lasciare un coltello conficcato a pochi centimetri dalle dita sinistre del primo, sia quella – peggiore – di consentire che a sorvegliarli sia Yama, da poco sottratto ai terribili artigli delle infernali sette sentinelle di pietra e soprattutto da egli stesso non ritenuto all’altezza: tanto che, poco più tardi, così si rivolgerà a Medina: «…tu non sai di che cosa siano capaci! E mio figlio è stato a lungo malato… Non posso fidarmi di lui…».

Nelle convulse fasi conclusive, Yama, ricevuto l’ordine di uccidere Carson e Tiger, mette a segno un gran colpo: li sorprende, li soggioga, si impadronisce dei loro corpi e della loro volontà. Li ha davanti a sé, inutilmente armati, totalmente in suo potere. Eppure, anziché affrettarsi a sfruttare tale colossale occasione, anziché ricorrere a un vecchio trucco paterno e imporre loro di fare fuoco l’uno contro l’altro, pensa bene di farsi sedurre dalla folgorante idea di eliminarli comandando loro di incamminarsi verso i Comkaak suoi alleati affinché facciano da bersaglio alle loro frecce. E consentendo in tal modo a Padma di poterli salvare…

In ultimo, la vera opera maestra.
È la resa dei conti. Kit Willer è caduto in trappola. In una caverna annidata nel cratere di un antico vulcano spento dell’isola Tiburón, legato per i polsi a una fune, penzola a pochi metri da un allegro laghetto di lava rovente… Tex – giusto per mantenere fede all’intento appena pensato di non voler concedere al proprio antagonista la possibilità di studiare qualche altra trovata – accorre annunciandosi a colpi di fucile. Steve Dickart – che gli ha addirittura indicato la strada con una sorta di segnaletica luminosa… – lo accoglie col suo ghigno e gli archi tesi dei Comkaak. La fune comincia a essere calata. Tutto sembra compiersi… E invece il capo dei Navajo ha il tempo di fare fuori gli indiani, di sparare alla figura incorporea del suo nemico, di rassicurare il figlio, di invitarlo a «fare un pendolo», di donare un perpetuo riposo ad altri tre pellerossa e di spezzare con un proiettile la corda nel momento in cui Kit completa l’oscillazione in grado di farlo atterrare sull’asciutto. E ogni cosa senza che Mefisto muova un muscolo, senza che provi minimamente a intervenire; ogni cosa sotto lo sguardo inebetito di colui che – a sentire le diverse sentenze sputate dal lama rosso boselliano nel corso dell’avventura – «ormai ha superato qualunque adepto della magia nera sulla via della mano sinistra», che «ha visitato i sette inferni e ne ha acquisito i poteri», che «ha demoni e forze oscure al suo servizio»; di colui al quale «quasi nulla […] è precluso!».
Già, quasi…

Riproduzioni difettose, quindi.
E sfortunate.
Sì, poiché nel pianificare di riunire la famiglia facendo evadere Lily Dickart dalla prigione territoriale di Yuma dopo essere fuggiti da San Francisco, mai avrebbero ipotizzato che un’idea del genere avrebbe peggiorato la loro situazione. L’avvenente, pragmatica e determinatissima bionda, infatti, seguendo unicamente la stella cometa della propria sicurezza personale, finisce per provocare una frattura esposta nei già non solidi rapporti tra Mefisto e Yama. Al punto che quest’ultimo, quando il padre – decretando la morte di Padma su “consiglio” della donna – lo priva della bramata possibilità di diventare più forte carpendo «gli infiniti segreti» della magia del lama rosso, profondamente deluso e indispettito non solamente disobbedisce al genitore mandandone a monte la strategia, ma arriva persino ad augurarsene la morte…

Sipario!

Yama

Su un lungo tappeto di dialoghi troppo spesso asfittici e ripetitivi (glissando sul resto, non sarebbe stato sufficiente che Narbas – il medium indù riportato in vita dal Morisco e da Padma per aiutare Tex a mettere il sale sulla coda del più anziano dei Dickart – si limitasse a enunciare una sola volta il benedettissimo concetto secondo cui, esistendo ancora un legame tra la sua anima e il corpo che gli era stato rubato da Mefisto, era in grado di avvertirne la presenza?) si giunge alla sospirata fine.
Della storia, certamente.
Ma soprattutto della sfinente guerra di parole tra Mefisto, Padma e Yama tesa a stabilire chi di loro sia il «mago» più potente…
Al termine del loro estremo duello, Padma e Blacky Dickart hanno pagato un prezzo molto alto: mentre il primo, nonostante l’ennesimo utilizzo del dorje tibetano a mo’ di banalissimo scettro sparapoteri, è passato nel mondo dei più, l’altro ha visto cedere il suo cervello, risucchiato nuovamente negli abissi della follia.
Mefisto invece si è goduto il suo trionfo!
Ha osservato gli angeli neri e i demoni dei sette inferni squarciare la gola di Tiger Jack, fare scempio di Kit Willer, straziare con unghie e denti le membra di Carson; ha assistito incredulo alla rovina di colui che l’aveva umiliato e fatto rinchiudere in una cella di Fort Tampico (Fuorilegge, Tex 3-4)…
Per poco, però.
Soltanto per alcuni attimi.
Perché in realtà la sua era solo un’illusione.
Una crudele illusione offertagli in dono da Marzedhek, suo complice infernale.
No, Steve Dickart è daccapo nel regno delle tenebre. E a rispedircelo senza più un corpo e con allegata ricevuta di auspicato non ritorno, è stato Narbas pronunciando alla rovescia in sua presenza la formuletta magica con cui a suo tempo (Mefisto!, Tex 501-504) ne aveva evocato l’anima…
E Tex?
Beh, lui, per nulla segnato dalle ferite, da un bagno nelle fogne di Frisco, da una tremenda caduta di schiena sulle rocce e da un’estenuante caccia all’uomo portata avanti per laghi, monti, mari e deserti, riesce a compiere la sua azione da «uomo giusto»: toccando la sacra campana tibetana – voce del saggio custode delle sette porte dei cieli, guida spirituale di Padma -, facendola tintinnare, permette al lama rosso di riprendere a vivere, di ricevere il premio che si è meritato per aver accettato di ripercorrere il sentiero della mano sinistra pur di rimediare all’antico errore di essersi fidato di Mefisto e di averlo condotto proprio lungo quel sentiero…
Per tutti è ormai tempo di partire, di navigare verso San Francisco per consegnare Ruth Wilson e quel che resta di Yama alle amorevoli cure di Tom Devlin.
Per tutti tranne che per lei, «l’ultima dei Dickart».
Le tre vignette finali sono sue, del suo viso stanco e provato, dei suoi capelli bagnati, dei suoi dubbi sul futuro.
Lily è viva.
È libera.
Ed è assai facile prevedere che un giorno concederà il bis, che sarà ancora per sua mano che Mefisto tornerà a far parlare di sé.

L’esile speranza di chi scrive è che a diffondere e a far risaltare a dovere i micidiali, sinistri riverberi del suo sconfinato talento possa essere un altro direttore d’orchestra. Uno nuovo, che abbia ben chiaro che non basta aver studiato, aver riempito il golfo mistico di un gran numero di strumenti e di mediocri esecutori per restituire compiutamente a chi ascolta e guarda l’essenza più autentica di un capolavoro.

Cavalcando sotto la Via Lattea…

Cestaro e Civitelli

A tradurre in immagini i differenti registri narrativi in cui è articolata l’avventura – il primo tipico di un feuilleton noir e l’altro più marcatamente western – sono stati chiamati Gianluca e Raul Cestaro e Fabio Civitelli.
Lo straordinario lavoro della coppia partenopea vale il prezzo del biglietto.
Le loro matite, i loro pennelli, la loro arte indiscussa hanno reso magistralmente ogni aspetto del racconto: il fascino di San Francisco, le sue notti, le sue strade, la sua nebbia; le lugubri atmosfere del Black Mountain Asylum, gli scenari infernali, le potenze demoniache, le armi da fuoco – in special modo le Colt ‘45 “Peacemaker” di Tex, dei suoi pard e di Tom Devlin -; le fattezze, gli scatti d’ira, i repentini mutamenti d’umore, il volto, gli occhi di Mefisto. Questi ultimi, in particolare, sono uno spettacolo! Da ammirare e riammirare, dinanzi al quale rimanere incantati. Da applausi la definizione fisica e la recitazione di tutti i personaggi, costantemente calibrata.

Il bellissimo Tex di Fabio Civitelli

Non del tutto positiva, invece, la prova del maestro aretino.
Nell’istante in cui si distacca dal canone classico della sua narrazione per inerpicarsi lungo il versante sovrannaturale della vicenda, egli palesa i suoi limiti. Peraltro ammessi con serena ed esemplare onestà in occasione della scorsa edizione di Lucca Comics & Games: «…se ho fatto una fatica, è a disegnare i demoni e i mostri. Quello sì, è il mio punto debole. Quest’anno ho avuto l’appoggio dei fratelli Cestaro. Praticamente ho copiato i loro demoni che erano bellissimi! Naturalmente l’inchiostratura mia è diversa, quindi mi son venuti un po’ troppo bellini […]». Inoltre, mentre – insieme agli strepitosi paesaggi (la cavalcata dei Willer sotto la Via Lattea è da cartolina!) e agli impareggiabili primi piani di Tex e Carson – si fa decisamente apprezzare la sua caratterizzazione di Yama, lascia alquanto perplessi quella di Steve Dickart: il suo sguardo non incute terrore, il suo corpo appare leggermente più smagrito, invecchiato; i suoi movimenti ingessati, meno efficaci.

Molto bella la prima delle sette copertine realizzate da Claudio Villa. Sanza ‘nfamia e sanza lodo le restanti.

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