American Jesus Trilogy, pt.III

//
9 mins read

Analisi del libro terzo “Apocalisse”, di Mark Millar e Peter Gross

Dissolvenza…

Inizia il countdown verso lo showdown. In realtà il countdown inizia all’alba dei tempi, con quel sussurro con cui si apre la prima tavola, e che fa da volano alla madre di tutte le rivoluzioni. Il prologo (così come l’epilogo) ad opera di Tomm Coker ci mostra un Dio con i tratti di un uomo rinascimentale, a là Leonardo da Vinci, completamente coinvolto nell’estasi del suo atto creativo. Gli angeli vagavano nel resto della cittadina celeste, ma la serpeggiante consapevolezza che loro non sarebbero mai riusciti a placare il Suo senso di solitudine (il perché non è dato saperlo) instillò in alcuni di essi un, anzi IL senso di frustrazione per eccellenza, quello cioè che portò alla rivolta prima e alla caduta poi.

L’unica nota di interesse che Millar inserisce è che Dio aveva in mente di elevare con il tempo l’uomo, fatto come sappiamo “a sua immagine e somiglianza”, letteralmente al proprio livello di divinità. L’invidia (di alcuni) degli angeli è quindi chiara, specie se si pensa che, tecnicamente, gli angeli sono creature in qualche modo “programmate” per osannare il Signore, mentre l’uomo ha una sorta di “marcia in più”, vale a dire il libero arbitrio.

L’essere umano può scegliere di non amare Dio, ma può anche pentirsi e tornare tra le braccia del padre: a tale proposito, i concetti di Paradiso e Inferno, nella religione cattolica, sono da inquadrarsi più secondo una dimensione emotiva e spirituale, che materiale. La domanda esatta non è infatti dove si trova, bensì cosa è l’Inferno: è la completa e totale assenza dell’amore divino, l’assoluta impossibilità di tornare sui propri passi attraverso il pentimento, la negazione del concetto di redenzione, che pure Gesù Cristo ha provveduto (a caro prezzo) a elargire a suo tempo agli uomini lì sul Golgota.

Lucifero ha quindi pagato (a caro prezzo) la folle volontà di trascendere i confini della sua natura angelica, e ha letteralmente dedicato l’eternità a fare dispetti al proprio padre, provocando la morte di tutti gli emissari che quest’ultimo aveva inviato sulla Terra – si intravedono Martin Luther King, Gandhi, persino JFK, accanto ovviamente a Gesù Cristo – per ribadire il suo celeste messaggio.

In quest’ottica, la terza e ultima parte del generale affresco a opera di Millar e Gross si concentra in un primo momento a colmare, sempre a beneficio del lettore, alcuni “gap” informativi, mostrando per sommi capi l’ascesa al potere di Jodie. La Storia recente offre alcuni notevoli spunti alla narrazione, il primo dei quali è la distruzione delle Torri Gemelle – come già profetizzato da Gabriele a Luciana nel libro secondo – alla quale Jodie e il suo entourage assistono da posizione più che privilegiata, abbandonandosi quindi ad un sabba orgiastico per celebrare degnamente l’evento. Con riferimento a tempi più recenti, la pandemia da Covid è il pretesto ultimo per completare l’assoggettamento involontario delle masse attraverso l’inoculazione di un chip sottocutaneo, il cui scopo apparente è quello di garantire un miglior accesso ad una moltitudine di servizi virtuali integrati, mentre quello occulto è l’appropriazione dei dati di chiunque, su su fino all’irretimento dell’anima stessa. Nel frattempo, viene condotta anche la ricerca di una partner all’altezza per l’anticristo; la fortunata candidata, dalle iniziali salde radici cattoliche, viene condotta lungo una parabola di corruzione e perdizione che ha il suo culmine nella messa nera che la porterà ad essere ingravidata dalle potenze infernali attraverso il veicolo corporeo di Jodie.

Eppure… nonostante tali premesse, e nonostante Jodie sia arrivato al rango di Potus (come stabilito da illo tempore nel piano concepito dalla stirpe diabolica che governa il mondo), il suo atteggiamento nei confronti del copione scritto su misura per lui appare progressivamente ambiguo, ancillare, governato dal dubbio. Jodie è votato al male, ma è tentato dal bene, in perfetta antitesi con quanto enunciato da San Paolo Apostolo nella sua lettera ai Romani. Questo suo percorso interiore lo spinge infine a recarsi nella sua Peoria, da quello stesso padre O’Higgins che aveva, più o meno involontariamente, messo in crisi nel suo passato da dodicenne, e a cui adesso chiede di confessare i propri peccati – e in questa sequenza si ravvede un (più o meno) esplicito omaggio a “Confessional”, una delle più dissacranti storie del Constantine di Ennis. Anche in questo caso, però, dopo lo “sbandamento” iniziale la vera natura di Jodie torna a prendere il sopravvento, e i suoi passi echeggiano sempre più lontani nella chiesa, a poca distanza dal sacerdote lasciato sul pavimento in fin di vita.

L’intero libro terzo va da questo punto di vista inteso come una sorta di prolungato “orto degli ulivi” per Jodie, che si macera in un crescente dibattito interiore quasi ai limiti dell’eresia, mentre dall’altra parte Catalina percorre i sentieri del mondo maturando una sempre più granitica convinzione che l’umanità non possa più riscattarsi. L’apoteosi si raggiunge per forza di cose a Roma, quando Catalina si presenta nella Basilica di San Pietro e costringe le più alte cariche della Chiesa cattolica a fare i conti con la preponderante temporalità del potere da loro esercitato. Dopo il suo passaggio, il Vaticano semplicemente non esiste più, e il programma della figlia dell’Altissimo è fare sì che lo stesso accada per l’intero pianeta l’indomani.

Piccola nota a margine: la ormai preclara prospettiva del ribaltamento operata da Millar trova un inaspettato (quanto piacevolissimo) riscontro nelle parole di Luciano De Crescenzo, nel ruolo a lui più congeniale del prof. Bellavista, quando concludeva una delle sue lezioni alla sua scalcinata scolaresca dicendo che “la fede è violenza, la fede in qualsiasi cosa è sempre violenza”. E nel nostro caso, nonostante il ruolo e le azioni di Jodie, a mostrare la fede più intransigente è proprio Catalina.

Il prologo del terzo atto ci porta con un flashback al momento della nascita di Jodie, nel più caratteristico dei contesti satanici (almeno per come vengono ritratti nelle arti visive). Qui Millar gioca di ret–con, conferendo così alla madre di Jodie un background ed un ruolo (e una forte devozione cristiana) che assolutamente non sarebbero potuti trasparire nella prima parte dell’opera, ma che si saranno evidentemente resi necessari in fase di ripresa dei lavori dopo tanti anni, per far procedere la trama in una determinata direzione.

E la direzione è quella che, esaurito detto prologo, vede la trama principale ricollegarsi (pur con qualche minima forzatura) al cliffhanger del libro primo. Il Presidente Jodie parte con l’Air Force One in direzione di Megiddo dove lo attende la sua controparte, alla quale si rivela in mezzo ad una piana circondata da credenti in attesa della fine del mondo, mentre ovunque i morti risorgono in attesa del giudizio finale, e la gioia di ogni essere umano nel ricongiungersi ai propri cari supera di gran lunga l’orrore e lo spavento che un evento del genere dovrebbe portare con sé.

La tensione climatica è perfetta, e a questo punto sono solo due le direzioni che il racconto potrebbe prendere: da un lato l’effettivo scatenarsi della classica, catastrofica “apocalisse biblica”; dall’altro… nulla. La tensione cala per un motivo o per l’altro e lo scontro tanto atteso e temuto semplicemente non ha luogo, un po’ come avviene in American Gods.

Millar sceglie fondamentalmente questa seconda strada, con Jodie che si dichiara contrario a mettere in pratica il piano di conquista del Paradiso da così tanto tempo preparato, e finalmente invoca scientemente attraverso Catalina il perdono di Dio padre – che, come gli fu detto da bambino, è tecnicamente anche suo padre in quanto “è stato il primo e ha creato tutti gli esseri viventi”.

Con un doppio salto cristiano/carpiato all’indietro, questa sequenza, molto ben sceneggiata, può essere letta anche da un’altra prospettiva.

Nello specifico, Jodie che si inginocchia davanti a Catalina, colmo di contrizione, richiama molto da vicino il “buon ladrone” che, sulla croce accanto a Gesù chiede il perdono per i propri peccati; e Catalina usa nei confronti di Jodie più o meno le stesse parole che, in un altro tempo, in un altro (nemmeno troppo lontano) luogo, sotto un’altra veste e – soprattutto – in ben altre condizioni, già ebbe a pronunciare: “Di’ a tuo padre […] che stanotte sarà con noi in Paradiso”.

Allargando la prospettiva, Lucifero si rivela in fin della fiera né più né meno che un epigono del figliol prodigo della celebre parabola. Lucifero fu il figlio che si ribellò alla figura paterna, e che da questa in un modo o nell’altro si allontanò. Se però la genesi della vicenda è la stessa, diversi autori hanno fornito un’interpretazione diversa al suo svolgimento e alla sua conclusione. Partendo dall’idea che se un figlio si ribella al genitore, lo fa paradossalmente per troppo amore nei suoi confronti, ciò può tanto tradursi in una definitiva ricerca della vera misura di sé (il Lucifer di Carey), quanto nell’intima speranza di tornare all’abbraccio del padre (Millar). In tutto questo, Catalina gioca il ruolo del figlio maggiore che non aveva abbandonato la famiglia, ma senza le lamentele che questi avanzò dopo il ricongiungimento tra suo padre e suo fratello.

In tutto questo volemose bbene, quella famosa logica antropocentrica di cui si è tanto parlato fa il suo colpo di coda. Jodie rivela a Catalina che lo scopo di tutto quello che è avvenuto è stato di insegnare al Padre Onnipotente la fallibilità, o meglio l’immedesimazione: “Yahweh può finalmente capire cosa era passato per la testa di mio padre”. Una conclusione del genere presuppone che Dio vada posto allo stesso livello di un qualunque genitore alle prese con il salto generazionale, assolutamente non in grado di sintonizzarsi con le motivazioni alla base del comportamento dei propri figli, così come a suo tempo i suoi genitori non erano riusciti a comprendere la sua spinta di orgoglio giovanile.

Al di là di quanto professa la religione cattolica, anche gente del calibro di Leibniz era arrivata a postulare che il Dio Creatore è una sorta di regista onnisciente, che conosce tutte le possibili varianti e conseguenze di tutte le possibili decisioni fatte da tutti gli esseri viventi dell’universo mondo. Figurarsi quindi se non fosse perfettamente a conoscenza di ciò che passava per la testa del suo adorato Samaele.

Ma tant’è: come detto, la gestione del climax finale si mostra comunque come qualcosa di più di una semplice “furbata”, e il tutto si avvia verso la battuta finale: “Dio vi benedica” dice la madre di Jodie al figlio e ai nipoti. Il piano originario a questo punto può ripartire come da programma, e Catalina farà da facilitatore (o meglio, catalizzatore) del percorso di perfezionamento dell’uomo verso la salvezza finale.

Il commento grafico sull’operato di Peter Gross non si discosta molto da quanto già espresso in sede di analisi del libro secondo, dato che le ultime due parti della vicenda sono state realizzate back-to-back. L’impiego di pennelli digitali ha reso il tratto più nitido rispetto a una quindicina di anni prima, sebbene la possibilità di impiegare una colorazione digitale non si sia in realtà tradotta in un effetto troppo distante dall’iniziale acquerellato: l’evoluzione del supporto tecnico è stata quindi messa comunque al servizio di una certa qual continuità nella resa visiva dell’intera opera, e ciò ha smorzato (in senso positivo) il progressivo aumento di toni nell’escalation verso il conflitto finale. L’apporto di Coker si dimostra in questo un valido contraltare, grazie ad uno stile più corposo e strutturato. Anche qui la colorazione non indulge eccessivamente nel “caricare” le tavole, purtuttavia si avverte come in tanti altri casi che forse il b/n avrebbe garantito una ancor più significativa potenza nella resa finale.

In definitiva, Millar si è mostrato capace di gestire sulla lunga distanza sia l’aspetto post-modernista che il principio del ribaltamento di prospettiva. Il finale risulta forse troppo generalista, di certo una produzione indie non si sarebbe fatta scrupolo di spingere l’enfasi fino magari a scompaginare completamente l’ordine universale – tra l’altro, è proprio ciò che accade in Preacher e, sempre nell’Ennis-verso, anche in Chronicles of Wormwood.

Per ovvie ragioni, l’autore ha esplicitamente dichiarato che tra le sue principali fonti di ispirazione c’è quell’Omen con il quale Richard Donner proseguì e ampliò egregiamente quanto iniziato da William Friedkin con L’esorcista, che per primo conferì una nuova codifica – tanto narrativa quanto estetica – al cinema horror, elevandone lo spessore culturale e fornendogli finalmente il riconoscimento da tanto atteso di “cinema d’autore”.

Volendo infine fare nostro per un attimo il principio di ribaltamento della prospettiva, Omen al contrario si legge Nemo (latino per “nessuno”): magari anche questo può essere visto come indicativo del fatto che, alla fine, Jodie avrebbe solo voluto essere una persona qualsiasi – appunto, un “nessuno”, un po’ come la giovane Catalina, ma soprattutto come l’Avery Maine alter-ego di Peter Pan in una delle più toccanti storie di Dylan Dog – invece di essere il predestinato di una delle due fazioni che giocano sin dall’alba dei tempi la più grande sfida di tutti i tempi.

Finis.

 

Sullo stesso argomento:
American Jesus Trilogy, pt.I
American Jesus Trilogy, pt.II

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

Articolo precedente

Kalya n.19
“Fuga disperata”

Prossimo Articolo

Tex Omnibus n.5
“Os sabotadores”

Ultimi Articoli Blog

Steve Vandam

Steve Vandam. La ristampa del poliziesco firmato dal duo Sclavi-Alessandrini…