Dylan Dog nella Zona del crepuscolo

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Come accennavo nell’articolo con cui ho iniziato questa mia carrellata nel mondo bonelliano, nella seconda metà degli anni Settanta ho avuto una curiosa “crisi di rigetto” per i fumetti, diradando molto le mie letture dopo una fase bulimica in cui miscelavo di tutto: dei personaggi Bonelli salvai, per qualche anno, soltanto Zagor che abbandonai (temporaneamente) a inizio anni Ottanta, dopo il n° 200. In questo periodo continuai a leggere regolarmente soltanto Lanciostory e Skorpio, perdendomi così un sacco di “novità” bonelliane che erano iniziate con Mister No: novità di ambientazioni e tematiche, di caratterizzazione dei personaggi, di distacco più o meno marcato dalle pubblicazioni esistenti. Mi sono perso Ken Parker, che pur riproponendo il mondo del West era completamente diverso dal classico Tex. E in séguito mi sono perso Martin Mystère e le sue avventure da “detective dell’impossibile”, primo personaggio bonelliano ambientato ai giorni nostri (va da sé che, negli anni successivi, mi sono procurato entrambe le collane e ho recuperato i numeri “persi” di Tex e Zagor).
Oddio, devo confessare che – in questo periodo di distacco – una collana bonelliana avevo iniziato ad acquistarla… ma era l’unica “non nuova”, dato che si trattava dello scadente Judas: un western dai testi triti e ritriti, con disegni molto lontani dagli elevati standard della casa editrice, che terminò la sua avventura editoriale (senza alcun rimpianto da parte dei lettori) dopo soli 16 numeri.

Cosa mi spinse, nel 1986, ad acquistare il primo albo di Dylan Dog, la nuova serie bonelliana appena approdata in edicola? Innanzitutto la curiosità: pur avendo diminuito molto i miei acquisti, ogni visita che facevo al mio edicolante era un pretesto per sfogliare i fumetti che esponeva e quindi non avevo mancato di notare la pubblicità apparsa in quarta di copertina di molti albi Bonelli. Un indagatore dell’incubo? Zombi, fantasmi e altri mostri assortiti? Beh, forse valeva la pena provare… e non me ne pentii.
Se in Tex e Zagor (e, in misura minore, in altre collane bonelliane) l’horror aveva trovato saltuariamente posto, qui diventava il fulcro dell’avventura e al tempo stesso il pretesto per parlare di tutt’altro, con uno stile quasi cinematografico e un ritmo completamente nuovo, scoppiettante, ricco di citazioni, senza un attimo di tregua – anche grazie alle freddure di Groucho, che cambiava radicalmente il concetto di “comprimario umoristico” bonelliano di cui Cico costituiva la punta di diamante.
Nuova era la pagina della posta, molto poco istituzionale (per usare un eufemismo, visto che i lettori venivano apostrofati con “Care amebe” e altri termini simili…). Nuovi erano i disegni di Angelo Stano, dal tratto così particolare e sorprendente – anche se, a dire il vero, nei numeri successivi sarebbero apparsi disegnatori più tradizionali. E, naturalmente, nuovo era il personaggio principale, modellato sui tratti dell’attore inglese Rupert Everett: un indagatore dell’incubo, sì, ma scettico, brillante, seduttore al punto da corteggiare la sua cliente e di finirci a letto (e anche i vari seni nudi, mostrati esplicitamente a più riprese dopo qualche pudico ammiccamento in Mister No e Ken Parker, erano una novità dirompente…).
Insomma: Dylan Dog – o meglio il suo geniale creatore, Tiziano Sclavi – aveva tutte le carte in regola per risvegliare il mio interesse e farmi tornare all’acquisto regolare, dopo tanti anni, di un albo bonelliano in edicola.

Se il quarto numero (Il fantasma di Anna Never) mi piacque particolarmente, l’albo che mi fece definitivamente innamorare di Dylan Dog fu però il settimo, La zona del crepuscolo.
Perché proprio questo albo, che – se analizzato in profondità – non è perfetto, anzi presenta più di un’incongruenza e, inoltre, è disegnato in modo “più che tradizionale” dalla coppia Montanari & Grassani? Se dovessi dare una risposta precisa, non ci riuscirei: ma posso dire che l’atmosfera che Sclavi era riuscito a creare faceva passare in secondo piano tutto il resto.
Il lento scivolare di un’intera cittadina lungo il labilissimo confine tra la vita e la morte, con l’eterno perpetuarsi delle stesse azioni tutti i giorni, per l’eternità… L’adattamento del racconto di Edgar Allan Poe sulla mesmerizzazione di Valdemar, dai toni cupi e angoscianti… Il richiamo a Xabaras, che incrocia di nuovo – sia pure indirettamente – la strada del protagonista… I dialoghi brillanti alternati a tirate quasi filosofiche… E, naturalmente, le infinite citazioni che culminano (almeno per il sottoscritto) con la riproposizione della scena madre del golem di Dino Battaglia

 

Ma forse, tutto sommato, è abbastanza semplice descrivere le sensazioni che provai 35 anni fa, poco più che ventenne: perché mi piaceva Dylan Dog? Perché quelle che ho definito “tirate quasi filosofiche” erano proprio ciò che mi colpiva a quell’età ed erano distanti anni luce da qualsiasi fumetto avessi letto fino a quel momento. Quando Dylan – prima scettico, poi sbalordito, infine inorridito – obietta al dottor Hicks che la condizione degli abitanti di Inverary è atroce, la risposta che riceve è da incorniciare:
“Sì, può darsi… Ma non più della vita vera… Anzi, è praticamente la stessa cosa, solo che nella Zona del crepuscolo non si muore… È la banalità sublime… L’inutilità eretta a sistema… Il nonsenso totale… L’idea di dover morire fa sì che ci affanniamo per trovare uno scopo all’esistenza… Eliminata quell’idea, anche l’affanno scompare… Per questo molti mi chiesero di essere mesmerizzati anche se non erano in pericolo di vita… e, a poco a poco, l’intera Inverary scivolò nella Zona del crepuscolo… Lentamente… Dolcemente…”

Questa era l’essenza di Dylan Dog. Questo era ciò che attirava un ventenne a metà anni Ottanta, qualcosa di completamente diverso da un “semplice” fumetto d’avventura. Che dire di più?

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Marco Gremignai

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