Mi dispiace se suonerà irrispettoso nei confronti del lavoro fatto negli ultimi dieci anni e più dagli autori della serie (eccezion fatta per i casi virtuosi del compianto Paolo Morales e dei rari episodi di Vincenzo Beretta), ma per iniziare a spiegare perché ho trovato un barlume di speranza per il futuro di Martin Mystère negli ultimi due albi, scritti da autori esordienti sulla serie madre, devo necessariamente parlare di quello che NON vi ho trovato.
NON c’è il registro da commedia che ha trasformato in farsa quasi ogni avventura del Detective dell’Impossibile. E si badi bene, di esempi riusciti di commedia (brillante, però) se ne trovano, nella serie. Ma la cosa è decisamente sfuggita di mano nel tempo.
NON ci sono sviluppi talmente “assurdi” da mandare al macero ogni potenzialità dello spunto “mysterioso” del mese. Che poi il problema non è in genere lo sviluppo “assurdo” di per sé (cioè il “cosa”, in fondo si parla di una serie che nell’impossibile ha il suo marchio di fabbrica), ma le modalità con cui lo si racconta (il “come”).
NON ci sono personaggi importanti per la trama con una caratterizzazione “tagliata con l’accetta” ed i comprimari della serie non si limitano a timbrare il cartellino.
NON c’è un soggetto di base che sarebbe stato adatto per un racconto breve che è stato allungato oltremisura, per arrivare alle 154 pagine del mese, con “tigri del martini” (gli espedienti per trascinare un racconto) ormai consolidati nello stile stesso di scrittura di ogni sequenza. Ma quanto era meglio, su un piano narrativo, quando ogni storia durava “soltanto” il necessario?
Svuotato il campo dalle “interferenze” che da tanto tempo mi hanno tolto il piacere di leggere Martin Mystère, veniamo ai due episodi. Che non sono due capolavori, beninteso, ma che senza quel “rumore di fondo” spiccano inevitabilmente rispetto alla produzione più o meno recente della serie.
“Il mondiale che non c’era” (n.363, giugno 2019), scritto da Andrea Artusi, Ivo Lombardo e Mirco Zilio (i primi due avevano già lavorato alle “nuove avventure a colori”, il “reboot” a tempo determinato di Martin Mystère), per i disegni di Fabio Grimaldi, ha riproposto con credibilità il protagonista nel suo ruolo di archeologo, ma anche uomo maturo consapevole di come vada il mondo. Il detective dell’impossibile utilizza le sue conoscenze in una vicenda con agganci alla contemporaneità (lo sfruttamento dei territori da parte delle multinazionali e le tensioni con le comunità locali per le ripercussioni ambientali) e con inevitabili complotti dietro le quinte, in questo caso di “fanta storia” e poteri occulti (fin troppo occulti, in verità). Il tema “nazional popolare” del pallone (un fantomatico mondiale del 1942 disputatosi in piena seconda guerra mondiale nella Terra del Fuoco) colpisce l’attenzione sin dalla copertina, ma al tempo stesso rappresenta un po’ il tallone d’Achille dell’episodio. La serie di Martin Mystère è sempre stata radicata nella realtà del nostro pianeta: per questo sono esistiti avversari come gli “Uomini in Nero” o strutture governative come “Altrove”, vale a dire per evitare che le incredibili scoperte del protagonista diventassero di dominio pubblico. Ora, invece, nella realtà di Martin Mystère, è noto a tutti che nel 1942 si disputò veramente un mondiale di calcio. Per carità, è un dettaglio che non cambierebbe la nostra quotidianità, ed è necessario per permettere una soluzione positiva alla vicenda, ma il rischio è che un po’ alla volta la serie inizi a “scollegarsi” dalla realtà, e che si finisca alla cometa che precipiterà sulla Terra…
“Il cervello quantico” (n. 364, agosto 2019), scritto da Giovanni Eccher (già autore di Nathan Never) e disegnato dal debuttante Giovanni Nisi, dimostra persino qualcosa di più dell’albo precedente, per lo meno in termini narrativi. Per una volta la sempre più “spoilerante” politica comunicativa della Bonelli è stata saggia nel restare vaga nell’anteprima dell’episodio, per cui neppure qui si entrerà nei dettagli. Il tema generale, come si intuisce peraltro dall’incisiva copertina di Alessandrini, sono i poteri extrasensoriali della mente, che la trama sviluppa in modo intrigante. Si desidera voltare le pagine per scoprire cosa accadrà, grazie alla situazione decisamente insolita che riguarda la coprotagonista che affianca Martin. Altro valore aggiunto è il ruolo riservato ai comprimari storici, dal “misterioso” Java al fulminante siparietto di Diana, che nello spazio limitato a loro concesso non si sono rifugiati negli stereotipi della routine ed hanno mostrato segnali di vitalità. A suggellare il tutto, c’è l’introduzione di alcuni elementi che hanno le potenzialità per dare l’avvio ad una piccola saga all’interno della serie: una cosa tutta da verificare, perché vorrebbe dire che la testata ha finalmente smesso di vivere alla giornata ed ha riconquistato la capacità di progettare cicli di episodi collegati tra loro.
È senz’altro prematuro affermare che qualcosa stia cambiando nella gestione della serie, ma era davvero da tanto tempo che non leggevo due albi consecutivi di Martin Mystère che non mi portassero a pensare di avere sprecato soldi e tempo. Per di più scritti da autori al loro esordio. Certo, non tutto è girato alla perfezione. C’è qualcosa da sistemare nelle trame “mysteriose”, in cui alcuni passaggi narrativi (necessari) sono risultati un po’ troppo generici. C’è il senso di fastidio che si prova nel vedere che il linguaggio a gesti e grugniti di Java sembra, improvvisamente, diventato comprensibile a chiunque. Ma rispetto al “deserto” e all’inedia degli anni precedenti, sono “peccati” con i quali si può essere indulgenti, almeno per ora.
Quanto al futuro, c’è speranza per il Detective dell’Impossibile, su un piano narrativo? Vedremo. Se son rose, fioriranno. Si ricordi, tuttavia, che vanno annaffiate con continuità.
Tutte le immagini sono (c) Sergio Bonelli Editore