“King of Spies”
di Mark Millar & Matteo Scalera

Cosa accade quando l'agente segreto definitivo scopre di avere le ore contate?

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Ogni autore della cosiddetta “letteratura disegnata” deve necessariamente avere una visione “in movimento” delle scene che descrive, quasi fosse un film in anteprima; d’altronde, la stessa pre-produzione di un’opera visiva passa attraverso una fase di storyboarding, che altro non è se non l’iniziale traccia della storia sottoposta ad una scansione attraverso vignette e tavole.
Se uniamo la (notevole) capacità visiva di un autore ad una costruzione della storia già di per sé orientata ad un trasposizione su celluloide, otteniamo il MillarWorld.

Nel caso in questione, sir Roland King è LA spia par excellence al servizio di Sua Maestà. Epitome e contemporaneamente archetipo di questo tipo di personaggio, Roland assomma e contrae in sé tutte le caratteristiche possibili e immaginabili che si possano far derivare non solo dai modelli 007 e XXX, ma più in generale da tutte le interpretazioni date nel tempo all’icona dell’agente segreto – ivi comprese derive parodistiche à la Top Secret.

Tanta suspension of disbelief già solo come antipasto, quindi, su cui l’autore innesta l’altro classico plot dell’eroe (?) in piena crisi di coscienza una volta appurato che il suo tempo su questa terra è agli sgoccioli – per non parlare del conflitto generazionale: che lavoro potrà mai fare il figlio della spia più leggendaria della storia?
L’azione è quella sfrenata (e anche di più) tipica dei blockbuster del genere a partire dagli anni ‘90, ma siamo ormai in epoca di riletture anche “laterali” delle storie monodimensionali di un tempo, per cui la coppia padre/figlio viene sbucciata a mo’ di cipolla per darci maggiore contezza dei background di ciascuno; anche stavolta, però, Mark Millar ci tiene a svicolare da scontati psicologismi, e piazza un paio di twist ben congegnati, non necessariamente nelle ultim(issim)e pagine, spingendo il pedale sull’acceleratore – come si dice: pedal to metal – infischiandosene così fino alla fine di una rigorosa logica degli accadimenti a favore di una spettacolarità appunto da blockbuster, per poi compensare il tutto con un finale tra il dolce e l’amaro.

La potenza (di)visiva di Millar può diventare concreto atto solo però grazie al contributo mastodontico di Matteo Scalera – coadiuvato da una prova di pari livello ai colori da parte di Giovanna Niro. Dell’assoluta qualità del lavoro di Scalera si è già parlato; qui se ne può apprezzare la versatilità in un contesto se possibile più “tradizionale”, ma proprio per questo il dinamismo che spinge per esondare da ogni singola vignetta, costretto a fare i conti con tutta un’altra serie di vincoli, riesce a riproporsi con una vis uguale a se stessa seppur al contempo rinnovata, esuberante in maniera quasi liberatoria.

La collaborazione con il magico duo Scalera/Niro permette come si diceva a Millar di abbandonarsi ad una narrazione senza troppi freni, che riecheggia in alcuni momenti i toni beceri e divertenti propri di Garth Ennis, pur senza eccessivi approfondimenti emotivi al di là di quelli “da contratto” legati alle sfumature simil-intimistiche che l’autore decide di perseguire – compresi alcuni “confronti amatori” tra passato e presente: anche le spie leggendarie possono avere defaillances sotto le lenzuola!

Sapere di avere a che fare con un prodotto targato MillarWorld potrebbe per un attimo dare l’impressione di stare per leggere un’opera per certi versi fatta “in serie”: fortunatamente, al di là di quanto espresso nelle premesse, il talento multiforme dello scrittore britannico – e la sua provenienza già la dice lunga – riesce a tirare fuori l’ennesimo asso dalla manica. Forse è proprio la sua provenienza a conferirgli un “sentire” particolare con la materia narrata: fatto sta che ancora una volta il suo divertimento nell’orchestrare plausibili assurdità traspare in maniera chiara, e questo anche grazie all’assodata maestria del comparto grafico.
Un’opera in definitiva sì d’evasione, ma con un valore produttivo altissimo, cosa che in un modo di massificazione ancora conta come una boccata d’aria… ovviamente avvolta nel fumo di una sigaretta Cobbs.

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

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