… poi a volte capita che c’è chi esagera (come col cotechino e lo spumante) e invece di UNA serie preferita del 2019, ne piazza ben due che nel 2019 si chiudono, arrivando da più lontano.
Oscar Tamburis – Fables e Black Science
Quest’anno la mia attenzione si focalizza in particolare su due titoli, dalle caratteristiche abbastanza diverse per quanto concerne tematica, stile di scrittura e resa grafica.
Il primo è Fables, opus magnum di Marc Willingham, pubblicato a partire dal 2014 in versione bonellide in b/n dalla RW Lion. L’originale cadenza mensile ha iniziato però a diradarsi con il
passare del tempo, con il risultato che l’ultimo numero è stato pubblicato nella seconda metà del 2019, circa un anno dopo l’uscita del numero precedente.
C’è invero poco da dire che non sia già stato detto su questo monumentale affresco che accompagna il lettore lungo la sequela di vicissitudini di (molti dei) personaggi delle favole, i quali si sono rifugiati a New York dopo essere stati scacciati dalle loro terre d’origine da un misterioso quanto potentissimo Avversario.
Parlare di “opera magna” non è assolutamente fuori luogo, dato che la già corposa, variegata e multiforme narrazione principale è stata anche attorniata da un non esiguo numero di spin-off (anch’essi quasi completamente a firma di Willingham) che ne hanno se possibile aumentato ancora lo spessore qualitativo; questi purtroppo non sono stati contemplati nella versione da edicola, con l’unica eccezione di parte del cross-over con la serie incentrata su Jack delle Favole: ciò ha comportato in alcuni casi dei “gap” narrativi che il lettore non ha modo di riempire nell’immediato, e che inficiano pertanto la possibilità di godere appieno della lettura.
La stessa organizzazione di ogni uscita, basata sulle canoniche 94 tavole, avrà poi verosimilmente richiesto a quelli della RW più di una modifica all’originale scaletta di pubblicazione di one-pages e/o vicende “laterali” rispetto alla successione degli story arc principali, con il risultato anche qui di destabilizzare l’attenzione del lettore.
A questi aspetti, ascrivibili alle politiche del distributore, si accompagnano dall’altro lato alcuni snodi narrativi che rimangono di fatto non investigati, oltre alla percezione di un’accelerazione nel ritmo degli eventi verso il finire della serie, quasi che lo spazio a disposizione fosse terminato anzitempo e l’autore abbia dovuto, in un modo o nell’altro, far quadrare quanti più conti possibile.
Ciononostante, si è di fronte come detto ad uno degli universi narrativi più originali e meglio raccontati degli ultimi anni: un racconto davvero corale che, pur non allontanandosi mai troppo
dai reali protagonisti (la “strana coppia” composta da Biancaneve e Luca Wolf), riesce a mettere in scena una miriade di altri personaggi fiabeschi, denotando tra l’altro l’immenso sforzo di documentazione perpetrato dall’autore, oltre all’indubbia capacità di riciclare personaggi ed ambientazioni in una chiave assolutamente moderna e accattivante – verrebbe quasi da usare
l’aggettivo “smart”, che sintetizza alla perfezione il senso di quanto finora detto, se non fosse che è fin troppo abusato al giorno d’oggi.
L’altro Marc di Fables è Marc Buckingham, ossia l’autore di oltre il 90% dei disegni dell’intera opera: anche per lui tanto di cappello, per essere riuscito a garantire una continuità stilistica che è solo migliorata con l’incedere della narrazione, tra l’altro offrendo più di uno spaccato di echi kirbyani attraverso, ma non solo, splash pages meticolose ed elaborate, senza ovviamente dimenticare la capacità di presentarci delle eroine come Biancaneve, Rosa Rossa, Rosa Spina, Cenerentola, Bella, etc. mai così dannatamente sexy! Accanto a lui, un folto stuolo di nomi di prim’ordine a rappresentare tutte le varie vicende di contorno (oltre ai già citati spin-off), segno dell’oggettiva levatura del materiale narrativo, che non poteva che essere affidato ai migliori per giungere alle nostre papille visive nella maniera più degna possibile di apprezzamento.
Il secondo titolo è quel Black Science, pubblicato dai tizi della Bao, che ha confermato – quasi ce ne fosse bisogno – l’abilità narrativa fuori scala di Rick Remender.
Anche in questo caso l’aggettivo “corale” non è del tutto fuori luogo, anzi il vero punto di forza dell’opera sta proprio nella continua capacità di modificare la prospettiva narrativa, rimbalzandola tra tutti i personaggi principali della storia: il risultato è di tenere continuamente desta l’attenzione del lettore, portandolo a simpatizzare (nel senso filologico del termine) con ciascuno di essi, e rendendolo così inesorabilmente invischiato nella girandola di craziness che l’autore è comunque capace di mettere in scena, anche qui in una progressione dove l’asticella viene spostata sempre più verso l’alto senza per questo rischiare alcun “salto dello squalo”.
L’esplorazione dell’ogniverso da parte di Grant McKay e del suo team diventa caleidoscopica, ed i personaggi che avevamo inizialmente creduto di seguire cedono il posto ad altre versioni di se
stessi, in una ferrea logica di spiazzamento che mantiene sempre e comunque rigore e giustificazione: Rick gioca onestamente con il lettore, anche se le regole del gioco sono tante quanti sono i tavoli attraverso i quali vorticosamente ci si muove, parallelamente a quanto accade ai personaggi ed alle loro sorti, mai scontate pur se – a livello alto – incastonate all’interno dei sempiterni schemi narrativi cari ad ogni epoca.
La resa grafica di Matteo Scalera è un continuo pugno allo stomaco (in senso buono) per quanto anch’essa fuori scala, capace di evocare e consegnarci l’astrazione di Remender in maniera
(in)credibile, giocando sulla dinamica delle tavole come e meglio dello storyboard di un blockbuster di fantascienza, sfondando la quarta parete in senso genuinamente artistico (nessuna
necessità di meta-qualcosa o post-qualcos’altro, qui!), anche grazie ai colori di Moreno Dinisio, il cui apporto in termini di cromatismi accentua ancor di più se possibile l’esplosione dei testi e
l’esaltazione dei disegni.
Un’opera a tutto tondo, capace di affondare le mani in una moltitudine di terreni narrativi pur creando e mantenendo una forte coesione interna, riuscendo così nell’intento di dissetare anche il lettore più distratto, per poi alla fine accomiatarsi da lui con un concreto senso di closure. Alzare i toni è relativamente semplice; chiudere il cerchio non lo è altrettanto. Black Science riesce egregiamente in entrambe le cose.