I fumetti sul mondo dei fumetti – fumetti e fumettisti – non sono più merce rara: autobiografici, rispondono a esigenze dell’autore e soddisfano la curiosità del lettore; biografici, sono soprattutto un omaggio a un’arte e ai suoi maestri.
In Giappone si tratta oramai di un filone a parte, e per quanto riguarda la prima categoria – autobiografica – gli esempi classici sono numerosi: Gekiga hyoryu di Yoshihiro Tatsumi risale al 2008 ed è stato tradotto nel 2012 presso Bao Publishing con il titolo Una vita tra i margini (dal 2022 è di nuovo disponibile per Coconico Press con titolo diverso, Gekiga, letteralmente “dramma per adulti”, neologismo inventato dallo stesso Tatsumi per definire quel che stava facendo, ai tempi controcorrente); Hinemosu no Tari Nikki (Diario di una vita ordinaria, 2015, non tradotto) di Tetsuya Chiba, il disegnatore di Ashita no Joe (Rocky Joe per la serie a cartoni animati degli anni Ottanta; Star Comics, 13 volumi, 2017-2018); c’è poi il recentissimo Ma vie en 24 images di Rintarô – ma anche più giovani leve hanno deciso di raccontarsi della sorta, come ad esempio Akiko Higashimura con il suo Disegna! (BD Edizioni, 5 volumi, 2018: ne parleremo in maniera specifica in un prossimo articolo).
Negli States, l’immenso Will Eisner raccontò le tribolazioni adolescenziali ma anche gli inizi già fordiani dell’industria dei comics in Verso la tempesta (prima edizione americana 1961; l’ultima edizione italiana, con sottotitolo aggiunto – Autobiografia di un discriminato, assente però nell’originale – è stata pubblicata da Rizzoli nel 2021).
In Europa, un omaggio sentito ai disegnatori che gli dipinsero l’infanzia – ma anche una rivelazione minuziosa dei meccanismi della censura franchista – è L’inverno del disegnatore di Paco Roca (prima edizione spagnola 2010, Tunué 2011).
Rare sono però le vite dei fumettisti raccontate da terzi con gli stessi stilemi grafici delle opere che li resero quel che sono: maestri nella loro arte.
Ne conto due, entrambe recenti (e mi scuso sin d’ora per i probabili oblii d’altri). Una è la biografia di Charles M. Schultz, creatore indimenticabile degli indimenticabili Peanuts, intitolata Funny Things. A Comic Strip Biography of Charles M. Schultz degli italiani Luca Debus e Francesco Matteuzzi (tradotta in italiano per i tipi di Becco Giallo nel novembre 2023, a solo tre mesi di distanza dall’edizione originale).
L’altra, apparsa ancor prima, è la vita di Edgar P. Jacobs, l’inventore di Blake e Mortimer, raccontata da chi lo conobbe ragazzino, fan sfegatato e poi amico (François Rivière), disegnata da chi si vide rifiutare l’onore di portare avanti le gesta dei due esploratori inglesi, Philippe Wurm: il titolo è Edgar P. Jacobs. Le rêveur d’apocalypses (Edgar P. Jacobs: il cantore dell’apocalisse, Alessandro Edizioni 2023).
Entrambi raccontano e disegnano la vita dei due fumettisti come questi raccontavano e disegnavano: in strisce di quattro vignette e nel formato delle tavole domenicali per Schultz, in singole tavole autoconclusive (le classiche “settimanali” che poi andavano a comporre l’albo completo) a tre o quattro strisce dense di nuvolette per Jacobs.
Francesco Matteuzzi non è nuovo a racconti biografici: sue le sceneggiature per le “vite” di don Peppe Diana (con Raffaele Lupoli, Feltrinelli 2009), Anna Politkovskaja (disegni di Elisabetta Benfatto, BeccoGiallo 2010, tradotta in francese), Philip K. Dick (alle matite questa volta Pierluigi Ongarato, BeccoGiallo 2012), Mark Rothko (pennelli di Giovanni Scarduelli, Centauria 2020, disponibile anche in inglese), Hokusai (disegni di Giuseppe Latanza, Mondadori Electa 2021, tradotta in francese e tedesco), Banksy (in coppia con Marco Maraggi, Centuria 2022, anche in inglese), Henri de Toulouse-Lautrec (disegni di Valerio Pastore, Eyrolles 2024, direttamente per il mercato francese). Insomma, quanto di più ecclettico vi sia.
Pure Luca Debus non è nuovo al fumetto umoristico: di lui si ricorda almeno, in quanto autore completo, l’adattamento della commedia di Oscar Wilde L’importanza di chiamarsi Ernesto (Festina Lente 2018).
L’intento è lodevole, da far tremare i polsi o, come ha scritto Jeff Smith nel The New York Times ricordato in quarta di copertina: «ci volevano i cosiddetti», talmente Schultz si dimostrò un maestro e un modello nella padronanza assoluta del ritmo proprio alla striscia. Di Josquin Deprez, sommo compositore del Rinascimento, si disse all’epoca che, contrariamente agli altri musicisti, lui piegava la musica al suo volere, non il contrario: lo stesso si può dire di Schultz riguardo ai fumetti.
La biografia, mastodontica (più di 400 pagine), trasuda una malinconia inaspettata che si scopre propria all’autore. Ed è un piacere ritrovare le origini di certe situazioni (il nome di Snoopy, la solitudine del lanciatore di baseball, il doppio misto al tennis, nonché certi aforismi rimasti nella memoria collettiva come «la felicità è un cucciolo (o una coperta) caldi»), raccontati e disegnati come Schultz li disegnò e li raccontò.
Bisogna però ammettere che è solo a due terzi del libro che la chiusa finale dell’ultima vignetta inizia ad essere efficace.
Confesso di non sapere se Matteuzzi e Debus hanno operato in maniera cronologica, e ci si chiede se la pubblicazione quotidiana o settimanale (dove e come però? chi scrive è perfettamente conscio del problema) non avrebbe forse aiutato i due autori ad acquisire nel tempo quella maturità che permette di padroneggiare il ritmo e la sintesi che la gabbia delle strisce impone, secondo una tradizione in fin dei conti estranea alla cultura italiana (le strisce Bonelli poi ricomposte nella tavola erano comunque tutt’altra cosa rispetto alle strips quotidiane statunitensi).
Diverso pare invece il risultato ottenuto da Rivière e Wurm, in un formato apparentemente più agevole. Non si tratta solo di passione, indiscutible ed evidente anche in Funny Things, o del piacere di scoprire, tramite le peripezie sentimentali e le incomprensioni professionali di cui fu vittima Jacobs, la Bruxelles del Secondo Dopoguerra e la nascita della ligne claire (che si deve a Hergé e a Tintin, certo, ma alla quale Jacobs apportò un contributo che Hergé non gli riconobbe mai).
Rivière e Wurm dimostrano di aver perfettamente integrato il linguaggio sia grafico che narrativo di Jacobs: nella scansione ritmica della singola tavola, che conclude a volte parzialmente la narrazione all’ultima vignetta della pagina per continuare nella seguente, e in una linea chiara che porta a chiedersi come sia possibile che l’editore abbia rifiutato a Wurm la possibilità di disegnare Blake e Mortimer. Ed è questa assimilazione semantica che ci fa entrare, più che nei fatti mostrati, nel processo creativo di Jacobs, riuscendo là dove Matteuzzi e Debus invece faticano, forse perché è comunque diverso il loro obiettivo (restituire l’uomo, non l’opera).
Matteuzzi e Debus riproducono un gesto per mimetismo, mentre Rivière e Wurm assorbono e nell’assorbire acquisiscono – e illustrando illustrano – i meccanismi del linguaggio visivo di Jacobs, invogliando il lettore a tornare o a scoprire non solo l’autore, ma anche e soprattutto l’opera originale.
Su Blake e Mortimer il dibattito (e uBC l’ha dimostrato…) è tutt’ora aperto. Eppure la lettura de Il cantore dell’apocalisse mi ha non soltanto fatto comprendere dove nasceva l’entusiasmo degli adolescenti belgi, francesi e non solo degli anni Cinquanta e Sessanta, e come sia possibile che l’analisi proliferi (la saggistica su Jacobs è infinita) e la passione perduri da decenni e non accenni a diminuire.
Si contano infatti appena dodici titoli a firma di Jacobs, dell’ultimo dei quali si è pubblicato postumo il solo layout a matita, mentre il séguito ha più che raddoppiato: l’ultimo numero, il trentesimo, Firmato Olrik (Alessandro Edizioni 2024) con gli splendidi disegni – testamentari – di André Juillard, è il quarto libro a fumetti più venduto l’anno scorso in Francia (fonte: Livres Hebdo), uno nuovo è annunciato per quest’anno e altri due sono già in cantiere.
Ma soprattutto mi ha fatto riprendere in mano L’enigma di Atlantide nell’edizione Gandus della biblioteca paterna, iniziato da adolescente grazie all’infatuazione verso i continenti scomparsi provocata dai primi albi di Martin Mystère e abbandonato a causa di una loquacità più prolissa di quella di Alfredo Castelli e mai digerita – a dispetto appunto di mio padre.
E mi è sembrato di capire allora, come si capisce in me, la particolarità del linguaggio di Jacobs, che non al cinema si rifà (come gli chiese il suo editore, sollecitandogli neanche tanto velatamente più azione e meno dialoghi), ma all’opera in musica, suo primo e mai dimenticato amore (Verdi e Rossini ma anche Berlioz, Debussy, Ravel: in gioventù, Jacobs fu baritono nel coro della Monnaie di Bruxelles; Un opéra de papier – Un’opera di carta – è il titolo dell’autobiografia datata 1981, inedita in Italia, e tale può essere l’epiteto dei suoi fumetti). È nel fornire una chiave di lettura non solo della vita ma del linguaggio fumettistico dell’autore che sta, credo, la differenza di Rivière e Wurm.
Dei quattro comunque – Rivière e Wurm come Matteuzzi e Debus – va lodata e riconosciuta la lezione: quella che il fumetto può raccontarsi con il vocabolario, la grammatica e la dialettica di chi l’ha creato. Non si può sperare, e al contempo augurare, risultato migliore.