Un mangaka che disegna all’occidentale: lo strillo pubblicitario è assicurato. Si tratta di un’opera prima, nel senso che l’autore in questione non ha mai disegnato né un manga né un comic book né un fumetto: l’evento è garantito. Quando poi la firma è quella di Rintarô (al secolo Shigeyuki Hayashi), uno dei padri fondatori del cinema d’animazione giapponese, allora i superlativi sono tutti legittimi.
Assecondando la domanda dell’editore Kana, filiale francese di Dargaud specializzata nella pubblicazione di manga, alla soglia dei sessant’anni Rintarô mette su carta i ricordi di una vita per il suo primo fumetto da quando, neppure ventenne, disegnò per le prime biblioteche paganti – nate negli anni Sessanta e che tanto contribuirono alla diffusione del mezzo – qualche manga per campare (e di cui si vergognò appena li vide negli scaffali).
Il formato del volume, 30×23, inusuale per un libro di un autore giapponese e dalle dimensioni più prossime agli standard delle bédé francesi, nasconde una precisa scelta estetica, miscuglio sorprendente di strutture narrative europee (tavole rigorosamente strutturate in quattro strisce, nessuna linea cinetica, nessun sovrapporsi di vignette verticali, orizzontali e oblique) e inquadrature prettamente orientali (successione di campi lunghi e inquadrature ravvicinate o a mezzo busto).
Nel raccontarsi, Rintarô dipana una triplice prospettiva: famigliare, professionale e storica. La famiglia non sopravvisse ai sogni artistici del padre, che voleva diventare autore per il teatro, che fece scoprire il cinema al figlio e che lo incoraggiò nel cammino artistico, ma al quale lui in prima istanza dovette rinunciare per sopravvivere.
La professione è sempre vista come un’avventura collettiva, che si tratti degli inizi pioneristici con Toei Animation prima e Osamu Tezuka poi, della consacrazione con le serie televisive tratte dalle storie di Leiji Matsumoto, Capitan Harlock in primis ma anche l’ambizioso progetto cinematografico Galaxy Express 999, o del raggiungimento della meta personale che è soprattutto un omaggio al proprio mentore: Metropolis, tratto da un’opera giovanile di Tezuka, in questo coadiuvato da quel mito vivente che era già all’epoca (grazie ad Akira), il più giovane Katsuhiro Otomo. Sebbene Rintarô abbia poi continuato a produrre altri film, sperimentando nuovamente in maniera pioneristica la nascente tecnologia 3D (Yonayona pengin, 2009, per intenderci lo stesso anno in cui uscì nelle sale Avatar), l’autobiografia si chiude – simbolicamente – qui, con la riverenza al maestro. A piccoli tocchi, più presenti nella prima parte afferente l’infanzia che nella seconda, la piccola storia personale di Rintarô fa da specchio al travaglio della ricostruzione nipponica del Dopoguerra, dalla vita in comune dei rifugiati all’aspersione di DDT programmata dagli americani nelle scuole elementari.
Il tratto, morbido, l’uso pacato del tablet digitale per gli sfondi e il ricorso a soluzioni grafiche ricorrenti, come le copertine dei dischi jazz per indicare il trascorrere del tempo e un gatto onnipresente per quello invece fisso della memoria, rivelano le ore passate a disegnare gli ‘intervalli’ dei fotogrammi (le 24 immagini al secondo del titolo).
Al di là degli aneddoti pur gustosi – Tezuka, già allora considerato Manga no Kami-Sama, il ‘dio del manga’, vestito del solo yukata, il pigiama estivo giapponese, che in bici va a cercare ad ore piccole Rintarô per verificare i rush, lasciando in bianco tanto Rintarô che la fidanzata; il boss di Toei Animation che piange guardando l’episodio pilota di Capitan Harlock; o ancora Keith Emerson, tastierista degli Emerson Lake & Palmer, che a torso nudo improvvisa la colonna sonora di Harmagedon (1983) – l’essenziale è altrove: come sempre, in ciò che resta una volta chiusa l’ultima pagina. Se alcuni temi sono comuni ad opere come Al tempo di papà e In una lontana città di Jiro Taniguchi (il mestiere del padre, barbiere; la ricostruzione amara del Giappone dopoguerra; i sogni che si riescono a realizzare e quelli che restano nel cassetto, e come questi determinano scelte che coinvolgono non solo chi li fa, ma anche chi sta loro attorno), Rintarô se ne distingue per l’approccio drammaturgico: laddove Taniguchi trasforma la realtà in finzione per trascenderla, Rintarô la rende universale nel percorso individuale e nella condivisione di un mondo scomparso che questo ha formato, sebbene non ci se ne accorga più.
Sembra allora di trovarsi davanti a Nuovo Cinema Paradiso, e non solo perché Riso amaro e Silvana Mangano invadono le notti di Rintarô fanciullo. Nel film di Tornatore il protagonista, e noi con lui, è travolto dall’emozione di ritrovare i baci censurati, potenza dell’immaginario cinematografico. Immergendosi nell’autobiografia di Rintarô, è la nostalgia per la forza e per la fede nell’avventura collettiva che prende al cuore il lettore più attempato e, in quest’epoca solipsistica, si spera la sorpresa e la voglia di quello più giovane.