La fantascienza è un registro narrativo, spesso erroneamente etichettato come “genere”; in realtà, è una modalità di raccontare e indagare chi siamo alternativa alla narrativa realistica, e che al suo interno può prevedere ogni genere letterario e affrontare ogni argomento, declinato in un altrove o un altroquando, o secondo un altro ordine di pensiero rispetto al registro realistico. È un modo per proiettarci all’esterno della nostra quotidianità e osservarci – per meglio comprenderci – con apparente distacco (in realtà con la maggiore “potenza di fuoco” che un microscopio ha per i particolari).
Negli oltre trent’anni che separano il primo albo uscito in edicola da questo quattrocentesimo, Nathan Never ha rappresentato nel panorama del fumetto italiano lo specchio più ampio, completo delle possibilità narrative della fantascienza: vuoi perché già a partire dai suoi tre creatori la visione del personaggio e l’idea sottesa di fantascienza si differenziava non poco, vuoi perché altri autori nel tempo hanno aggiunto la propria sensibilità a quelle originali. Naturalmente, in trenta e passa anni il valore delle storie transitate in edicola è stato il più vario: una serie mensile di così lungo corso (e il numero complessivo delle storie eccede di molto i 400 albi della serie regolare) non è la stessa cosa di una miniserie di sei o dodici volumi, dove tutto può essere pianificato con un (relativo) certo agio e, almeno in teoria, curato nei minimi dettagli.
Così come è più in generale per molta narrativa fantascientifica, Nathan ha dato ai lettori il suo meglio quando ha saputo coniugare la vocazione bonelliana per il fumetto avventuroso con l’esplorazione delle pieghe meno gradevoli della nostra società, e della nostra specificità di esseri umani; quando ha saputo rimestare e indagare nel male che siamo capaci di fare agli altri uomini: ai singoli, ai gruppi, ai popoli interi. Quando, insomma, i suoi autori hanno saputo farlo andare fino al cuore di tenebra dell’essere umani – che il racconto trattasse dell’uomo Nathan Never o della nostra società che si specchia in quella di Nathan; che la storia fosse ambientata nello spazio lontano dal sistema solare o nei pensieri intimi di un individuo.
Dei tre creatori del personaggio, Michele Medda – che troviamo ai testi di questo numero 400 – è sempre stato quello più sollecito a scendere negli aspetti più politici e sociali (e inevitabilmente economici) del nostro cuore di tenebra. Per questa occasione celebrativa abbiamo così una storia autorevole, che nelle poche decine di pagine di un albo bonelliano ha condensato un’analisi attenta e criticamente tagliente di molte tendenze in atto (certo non da oggi) nella nostra società, e la cui ombra si allunga sul nostro futuro.
Attraverso il racconto di fantasia, Medda mette a nudo i meccanismi della comunicazione e della persuasione con i quali i “padroni dei sogni”, quelli reali che operano nella nostra società grazie ai media di massa, orientano l’opinione appunto delle masse, dell’intera società, senza alcun riguardo per i supposti diritti umani. Una volta di più pone in evidenza i risultati dello spietato cinismo fondato sulla prevalenza dell’economico che ordina tutta la nostra società; così come evidenzia il livello assoluto di mistificazione del discorso politico e di quello scientifico, in tutto subordinati all’ordine economico. Nulla di nuovo o inaudito, ovviamente, e come detto Medda è sempre stato particolarmente sensibile a questi argomenti; qui tuttavia li affronta con una particolare lucidità (talvolta nella sintesi estrema di una battuta icastica) che viene da definire spietata, e con una sincerità particolarmente tangibile – ciò che mette in secondo piano un certo inevitabile didascalismo e oblitera il rischio di produrre un racconto a tesi, eventualità sempre possibili quando si fanno le pulci all’ordine vigente.
Tutto è ridotto a business nel mondo di Nathan, perché tutto è business qui e oggi per noi. Perché una guerra è un’occasione per fare soldi buona come può esserlo un terremoto o un’epidemia. Basta convincere la popolazione che quella guerra è un bene, o al limite un male minore. E i mezzi per convincerla ci sono, morbidi e vellutati come un carezzevole guanto di satin, ma pronti a trasformarsi in lame affilate per tagliare la gola di chi non voglia convincersi.
Tutti questi sono argomenti che in un fumetto cosiddetto popolare possono risultare aridi, forse persino respingenti. Si diceva prima, però, che Nathan Never ha sempre dato il suo meglio nelle occasioni in cui gli autori hanno saputo scoperchiare il nostro cuore di tenebra combinandone il racconto con la tradizione avventurosa del fumetto bonelliano – che è quanto avviene ne I padroni dei sogni. Medda inserisce infatti i suoi abrasivi cahiers de doléances nella cornice di una solida indagine investigativa che alterna sapientemente lavoro di intelligence, scene di azione adrenalinica, lavorio di celluline grigie e dialoghi calibrati ed efficaci. Risulta segnatamente apprezzabile, come già nell’albo precedente, l’innesto nel vivo delle indagini del nuovo acquisto dell’Agenzia Alfa, la giovane e “moderna” (modernità riferita alla nostra contemporaneità) Erika Tanner, il cui personaggio – se non verrà in qualche modo svilito o sprecato in futuro – appare potenzialmente il migliore da quando, nel primo albo della serie, ci sono stati presentati gli agenti Alfa da uno a tre. Erika è senza dubbio raffigurata come un personaggio peculiare, caratterizzata in modo immediato dalle sue idiosincrasie e da un passato problematico al momento solo accennato: ci viene dunque presentata sopra le righe; tuttavia Medda è stato sin qui particolarmente abile nel costruirle una personalità credibile a partire da caratteristiche in qualche modo esagerate, fornendo così l’abbrivio per un personaggio che, finalmente, sembra passibile di sviluppi interessanti.
Rosario Raho ha tradotto visivamente la storia attraverso immagini drammaticamente adatte a ogni suo passaggio, svariando dalla splendida resa dinamica delle scene d’azione più pura all’intensità intima dei pensieri che affiorano sul volto di Nathan o altri nei frangenti in cui si confrontano con la propria coscienza o le proprie paure. Il lavoro di Raho è ben completato dalla colorazione di Daniele Rudoni ed Elisa Sguanci che coglie il senso complessivo della storia fornendo alla disamina analitica, quasi saggistica di Medda, una lettura emotivamente raggelata, ma capace di virare su intensità impetuose nelle scene dove l’azione, e soprattutto il dramma, prevalgono.
Il finale, che per alcuni aspetti è certamente “lieto”, potrebbe apparire consolatorio, ma trovo più convincente una sua lettura in senso esortativo: vi è ancora spazio per ribellarsi, per resistere ai meccanismi totalizzanti della nostra società; tuttavia la resistenza e la ribellione hanno un prezzo, spesso molto caro. E sono impossibili su base individuale.
War is peace
(George Orwell)