Nonostante sia stato per tanti anni una delle colonne di Tex, Erio Nicolò è uno dei disegnatori meno citati dai lettori nelle varie classifiche di gradimento sparse nei social.
L’artista fiorentino è però rimasto nei cuori di tanti Texiani di provata fede, coloro che nel suo tratto classico (parente strettissimo di quello di Alex Raymond) rivedono la grande epopea del filone western, quello alla John Ford, con un Tex irresistibilmente garycooperiano.
Cedendo alla corte di Sergio Bonelli, Nicolò approdò a Tex nel 1964, abbandonando – dopo una lunghissima collaborazione – la casa editrice milanese Universo, di cui era uno dei pilastri.
Definito da tutti come persona schiva e gentile, lontana dai riflettori, completamente dedita alla famiglia e al lavoro, trovò in questa – ancora piccola – casa editrice il luogo ideale dove poter esprimere con ritmi meno intensi il suo grande talento.
E proprio nel lavoro riversava tutta la sua arte e la sua passione, familiarizzando ben presto con le storie del Ranger. Lo stesso Nicolò lo rivela in una delle sue rarissime interviste, raccolta da Pasquale Iozzino (Dime Press 20, Un fiorentino nel West): “Tex mi è molto simpatico, lo disegno volentieri. È un personaggio vincente, e per questo da favola: realizza i sogni di chi vorrebbe essere forte come lui”.
Leggendaria la sua bravura nel disegnare i cavalli, elemento fondamentale delle storie western: in Silver Star, numero 129, la mandria al galoppo guidata dallo stallone nero che per i Navajos incarna lo spirito di Manitu – il cui nome dona il titolo alla storia – assume le sembianze epiche di un esercito che corre in battaglia.
La raffigurazione di Tex è sempre fine e curata, grazie al suo tratto morbido e deciso; un eroe gentile, anche quando all’occorrenza assume pose da duro, minacciose pur nella loro apparente tranquillità.
Nessuna mimica esagerata, nessun azzardo nelle inquadrature: è sufficiente quel volto calmo e rilassato ma che sa incutere timore e rispetto.
Ma la sua bravura è proprio nell’insieme di tutti e quattro i pards, come ci ricorda in modo più che appropriato Michela Feltrin:
“Non si tratta solo di bellezza e di fascino; vi è in loro una sorta di portamento eroico che scaturisce dalla totalità della figura. Il fisico è asciutto, dalla muscolatura appena accennata, ma che si intuisce solida come l’acciaio, la muscolatura di uomini che hanno sopportato molti dolori e continue fatiche, come potevano essere lo stesso Nicolò e tanti altri della sua generazione; la figura è elegante, così come eleganti sono le movenze dei pards, e lo sono sempre, persino quando si tuffano da un cavallo in corsa o imbracciano un fucile o massaggiano la mascella a qualche delinquente; l’espressività è, anch’essa, spesso accennata, ma profonda e toccante, come si addice a eroi di quella levatura morale e ai loro sentimenti forti, spesso celati.”
Impossibile non ricordare la sua prova più celebre, quella nella storia ritenuta da tanti appassionati delle avventure dell’eroe bonelliano come la più famosa e la più riuscita.
Mi riferisco a La cella della morte, episodio che copre gli albi dal numero 141 al 145, la più lunga storia scritta da Gianluigi Bonelli e anche la più lunga dell’intera serie fino al 1993, quando fu pubblicato Il segreto del Morisco di Nolitta.
Difficile ricordare un connubio così ben riuscito tra una sceneggiatura epica ed appassionante e disegni non solo al servizio della storia ma protagonisti anch’essi.
Tra le tante tavole che compongono la storia, voglio ricordare soprattutto quella in cui Tex prende commiato dai suoi pards prima di entrare nel famigerato penitenziario di Vicksburg.
È un momento fondamentale della vicenda: Tex sa bene che esiste la possibilità di non uscire più da quel carcere e che quella potrebbe essere l’ultima volta in cui guardare negli occhi i compagni di mille avventure e suo figlio.
Il momento è colmo di pathos, ma Bonelli evita ogni minimo cenno di retorica o patetismo, riuscendo ad emozionare con dialoghi scarni ma efficacissimi. Quel “Non dire niente Kit! Non dire niente…” è semplicemente magistrale, ogni altra parola sarebbe fuori posto.
E Nicolò sa interpretare quei momenti e quei dialoghi donando ad ogni componente del quartetto una velata espressione di smarrimento, sotto la quale emerge nitida l’incrollabile fiducia che lega i quattro amici, salda come le loro strette di mano.
Un altro aspetto importante della grande eredità lasciata da Nicolò è costituita dalle donne che popolano le sue storie, dotate di un fascino ed una bellezza uniche.
Lo ribadisce sempre Michela Feltrin:
“Assolutamente indimenticabili risultano poi i personaggi femminili disegnati da Nicolò, donne splendide, spesso splendidamente abbigliate e acconciate, seducenti ma mai volgari, intelligentissime. Per raffigurare una “spietata poiana” dal passato oscuro o una “finta baronessa” ex-ballerina nel porto di Shanghai non si puntava (ancora) su superscollature, gambe al vento ed espressioni ammiccanti. Le dark ladies di Nicolò sono tra le più memorabili della saga texiana, ma non è possibile dimenticare nemmeno le altre, le “buone”, dalla bionda Linda Dayton de Lo sceriffo di Durango alla mora Manuela Montoya de I due rivali alla fiera Wanaima della tribù degli Snakes di Trapper!”
La storia tra Tex ed Erio Nicolò si chiuderà troppo presto, con la sua improvvisa morte avvenuta il 27 febbraio 1983.
Come ci ha ricordato la moglie Bruna nella testimonianza raccolta da Pasquale Iozzino e Luigi Marcianò (Dime Press 20, Un fiorentino nel West), un infarto lo colse mentre era chino ancora una volta al suo tavolo da lavoro a disegnare un’altra storia dell’inossidabile ranger bonelliano.
Se ne andò in silenzio, senza quei clamori che nemmeno in vita aveva cercato.
Un aneddoto personale a chiusura di questo ricordo di Erio Nicolò.
Il primo Tex che rammento distintamente di aver letto fu Gilas!, diversi anni dopo la sua pubblicazione in edicola, trovato sul comodino di mio fratello.
Per il bimbetto che ero allora, quello stile così piacevole alla vista mi affascinò subito e quel fascino, nonostante siano passati tanti anni, è rimasto immutato.
Allora per procurarmi gli albi andavo in un vasto ma caotico negozio di libri, riviste e fumetti usati che aveva una sezione enorme di vecchi Tex, trascorrendovi interi pomeriggi .
Ogni volta era un’autentica caccia alle storie in cui ritrovare quel tratto che tanto ammiravo; la ricerca mi spingeva ad arrampicarmi sugli scaffali più alti del negozio per scovare gli episodi disegnati da quell’artista di cui non conoscevo il nome, ma di cui ero perdutamente innamorato.
E che festa quando riuscivo a comporre l’intera storia, che spesso iniziava a metà di un albo e finiva a metà di un altro!
Erano i tempi in cui maledicevo quegli episodi così spezzettati in diversi fumetti: inevitabile invece che oggi, per quelle storie, provi tanta nostalgia.