Nathan Never n.364 “Il Fattore H”

//
2 mins read

Nathan Never e il fattore umano

Stando a quanto viene riportato sul sito dell’INAIL, il termine “Fattore umano” (eng.: Human Factor) indica la disciplina scientifica meglio nota come Ergonomia (eng.: Ergonomics), la quale “studia interazioni tra essere umano e gli altri elementi di un sistema applicando teorie, principi, dati e metodi per progettare allo scopo di migliorare il benessere umano e le prestazioni del sistema”.

L’evocativa cover di Sergio Giardo sembra quindi quasi suggerire un Natan Nathan assorto nell’immaginare la migliore strategia aziendale che meglio bilanci elementi quali lavoro, organizzazione, e individuo al fine di impattare positivamente sul comportamento e dunque anche le conseguenze sugli obiettivi di salute e sicurezza.

Le cose in realtà non stanno esattamente così, o meglio: la vicenda orchestrata da Michele Medda, pur affrontando questi aspetti, li diluisce all’interno dell’ennesima variante di un ben rodato canovaccio, ossia quello della compagine più o meno assortita, preferibilmente racchiusa in un medesimo ambiente, e chiamata ad affrontare una minaccia incombente.

Le leggi della narrativa esigono che le frizioni tra i vari soggetti arrivino prima o poi ad innescare un’immaginaria miccia collegata ad una (a volte non tanto) immaginaria cassa imbottita di esplosivo. In questo frangente, l’eroe di turno deve battersi contro la minaccia di cui sopra, e contemporaneamente districarsi attraverso le varie declinazioni del fattore umano, tante quante sono i soggetti della detta compagine. Con riferimento a ciò vediamo stavolta un Nathan non al suo meglio, che rischia la pelle abbastanza seriamente più di una volta.
Se si fosse trattato di Tex, i fan duri e puri avrebbero avuto un bel po’ da ridire, data la statura monolitica che per contratto il ranger deve avere: in questo caso, Medda si affida per gran parte della vicenda all’uso delle familiari didascalie di pensiero, che accompagnano sia il lettore che lo stesso Nathan nel suo peregrinare tra un ambiente e l’altro del satellite in cui è rimasto bloccato, offrendo il consueto raffinato menù a base di autocoscienza e velata autoironia.

L’altro aspetto in cui si ritrova il fattore del titolo è quello legato al comportamento e alle decisioni dei manager della casa farmaceutica proprietaria del satellite su cui Nathan si aggira: da un punto di vista strettamente tecnico, pur essendo vero che la fantascienza, in quanto “letteratura di anticipazione”, tende a proiettare in un contesto futuro gli aspetti della società odierna, la logica organizzativa adottata dalla compagnia viene trattata in maniera forse un po’ troppo superficiale, banalizzando alcuni dei princìpi di quella stessa disciplina che dà nome alla storia. È però questo un aspetto su cui si può anche sorvolare, specie se visto alla luce del fatto che, al pari dei corsi e ricorsi storici di matrice vichiana, anche gli stessi esseri umani (che di quei corsi e ricorsi sono tante volte gli artefici) a dirla tutta non è che abbiano fatto chissà quale salto di civiltà dall’epoca dell’antica Grecia ad oggi, per cui è verosimile porre che continuino a comportarsi in maniera analoga anche in un immediato futuro.

Rosario Raho fa un buon lavoro nel portare in scena alcuni dei temi che caratterizzano la narrazione, sebbene la predilezione per i chiari rispetto agli scuri fa perdere un po’ quel senso di claustrofobia che una vicenda del genere avrebbe canonicamente richiesto. I personaggi vengono ritratti in maniera a tratti stereotipata, ma in questo caso ciò finisce solo con il conferire ulteriore spessore alla descrizione fornita da Medda. In aggiunta, l’uso del b/n smorza il pervasivo senso di immobilismo che aveva caratterizzato la sua produzione nella prima stagione della serie “Martin Mystére: le nuove avventure a colori”. Infine, la scansione delle tavole non si abbandona a particolari guizzi, asservendosi in maniera semplice ma efficace alle linee dettate dalla sceneggiatura.

Anche in questa storia di Medda il plot twist è sottile, e colpisce quasi a tradimento il lettore verso le ultime pagine: è quasi un marchio di fabbrica di un certo tipo di produzione dell’autore, che fortunatamente continua a non stancare e consente di leggere storie il cui fascino sta più nella seconda lettura che non nella prima: anche questo è indice di capacità e stile.

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

Articolo precedente

Sulla Tavola | Ottobre 2021

Prossimo Articolo

Gli anni d’oro di Topolino (Corriere)

Ultimi Articoli Blog