…E vissero tutti felici e coerenti

La (ossessiva) ricerca di ordine nella narrazione, dal sogno di Tommy al futuro di Nathan Never

/
5 mins read

Il Maestro Andrea Camilleri, ne Il ladro di merendine, fa dire al piccolo François – o meglio, fa riferire da Livia – che unendo tra loro pezzi di puzzle diversi si ottiene una figura nuova. Ora, pur considerando valido questo assunto, la reale questione è se questa nuova figura possa anche possedere una qualche sua coerenza. La ricerca di coerenza – o, ancora meglio, del concetto d’oltremanica di consistency – da parte dell’essere umano nei confronti del mondo che lo circonda è un tratto fondamentalmente ancestrale (es. la pareidolia): ricercare schemi definiti e per certi versi riproducibili è alla base della spinta verso il sapere lungo molteplici direttive, dalla matematica, alla musica, alla filosofia.
L’ossessiva ricerca di un ordine interno ad un insieme di elementi, o in altre parole il tentativo di individuare ad ogni costo una qualche logica portante all’interno di un dato dominio, rischia invece di risolversi in una distorsione degli elementi del suddetto dominio – per dirla alla Sherlock Holmes, “adattare la realtà alle ipotesi, piuttosto che il contrario”.

Zoomando dalle parti della narrativa sequenziale, ci si addentra nei territori propri dei linguaggi alla base del fumetto e del cinema (che a diverso titolo possono ascriversi alla medesima materia di partenza, e che tra l’altro condividono anche l’anno di nascita) nonché, come diretta emanazione di quest’ultimo, delle produzioni televisive. La crescente percezione di sé da parte della categoria di fruitori (o “users”) a partire bene o male dagli anni ‘70 del secolo scorso ha richiesto sempre più agli autori di non lesinare sullo spessore della materia raccontata, anche perseguendo con maggiore rigore lo sviluppo orizzontale delle trame.

Un classico esempio di franchise che si estende su tutti i media citati è Star Wars: senza volerci addentrare in disamine particolari (il web ne è letteralmente pieno), per quel che ci riguarda basti pensare che praticamente sin dagli esordi, complice il successo su scala planetaria della prima trilogia, il fandom ha iniziato a fare le pulci all’impianto narrativo di un’opera che ambiva fondamentalmente a proporsi come una fiaba e che quindi – per quanto le fiabe richiedano comunque il rispetto di un dato set di regole – non pretendeva troppo in termini di coesione. È paradigmatico a questo proposito l’annoso diverbio “Solo ha sparato/non ha sparato per primo”.
In maniera cinica, tutto quello che è scaturito in séguito potrebbe anche vedersi sotto la prospettiva di un’infinita “corsa alla toppa” per arginare quantità altrettanto infinite di inesattezze; laddove si è però cercato di accontentare pedissequamente la sete di “canon” da parte del pubblico (e quindi lato cinema) i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Alterne fortune ha vissuto – come vive – il versante delle serie TV, che ha in ogni caso permesso di allargare l’orizzonte degli eventi narrati, distaccandosi anche con un certo successo dalla palla al piede della famiglia Skywalker. Anche in questo caso molto ha origine dalla cultura nerd di SW, che porta nello specifico il nome e il cognome di Dave Filoni: quest’ultimo è infatti riuscito in maniera più che soddisfacente a convogliare lo studio matto e disperatissimo della coerenza interna propria dei racconti di quella galassia lontana lontana, producendo contenuti capaci di armonizzare l’esistente filmico con tutta una miriade di elementi narrativi che, seppur – o forse proprio perché – nati all’ombra del grande schermo, hanno saputo infondere notevole valore e vigore al franchise, essendo guidati dalla volontà di “far girare bene le cose” seguendo un percorso maturo di decostruzione e analisi della materia di partenza.

Continuando a concentrarci sulle serie televisive – come ancora si chiamavano all’epoca – la loro crescente popolarità si deve spesso al talento e alla pervicacia di alcuni produttori di spicco come Irwin Allen, Aaron Spelling o Glen A. Larson, che ai tempi furono spesso additati come visionari, ma che già dagli anni ‘60 avevano iniziato a ragionare sulle immense potenzialità del medium, arrivando a codificare già allora buona parte di quella grammatica che tiene banco ancora oggi.
L’importanza di collegare storie, episodi e stagioni attraverso lo sviluppo di modelli diegetici quali archi narrativi di lungo respiro, la ricorrente riproposizione di personaggi di contorno, oltre all’uso sempre crescente di riferimenti sia interni che esterni è tra l’altro addirittura esitato nell’apparentemente fuori di testa (e invece fondata) cosiddetta “teoria del sogno di Tommy”, secondo la quale – calcoli alla mano – circa il 90% delle serie TV USA condividono lo stesso universo, con buona pace quindi di MCU ed epigoni vari.

Sul versante fumetto, la quest for consistency è stata affrontata con ottimi risultati anche dal più classico dei bastioni della trama verticale, vale a dire Disney, che nel Belpaese ha ormai da tempo sdoganato la compresenza tra paperi e topi – espediente classicamente utilizzato solo ed esclusivamente per eventi straordinari, come le Paperolimpiadi del 1988 – e ragiona sempre di più sull’idea di un universo che, in quanto già dichiaratamente condiviso, dovrebbe anche comportarsi come tale, con eventi le cui conseguenze si propagano a raggiera e impattano su altri eventi, e cioè altre storie.
La medesima tendenza si ritrova però anche nelle produzioni straniere. A tale proposito è il caso di citare l’opera dell’autore norvegese Kari Korhonen: i suoi Diari di Paperone stanno infatti negli ultimi anni portando i lettori a conoscenza di molteplici episodi della giovinezza dello Zione, i quali si inseriscono negli “spazi bianchi” tra le avventure narrate ai tempi da Don Rosa nella sua celebre Saga di Paperon de’ Paperoni – la quale a sua volta aveva sistematizzato elementi del passato del personaggio narrati, o semplicemente citati, nelle storie di Carl Barks.

Tralasciando un altrimenti proibitivo viaggio dalle parti di Marvel e DC (per le quali qualche parola si è comunque spesa qui), in terra italica va inesorabilmente citata la Bonelli, la quale ha vissuto la “ricerca della coerenza” in maniera ondivaga. È storia nota che il Sergione, ancorato com’era (a torto o a ragione) ad una dimensione “pura” della narrazione fantastica, esuberante e libera nella sua “fallacia”, non vedesse di buon occhio i team-up; l’interazione tra due personaggi di una medesima scuderia implica necessariamente il veicolare la narrazione entro una serie precisa di paletti, subor(di)nazioni e concatenamenti. Unico viatico a smussare il tutto, rubricare l’estemporaneità della vicenda al più scontato espediente onirico – ma altri escamotage sono ben noti, dal delirio alla magia, alle allucinazioni indotte da coma.

È purtuttavia innegabile che sono spesso quegli stessi paletti a ispirare storie originali; a tale proposito, i due team-up tra Martin Mystère e Nathan Never (si veda qui e qui) presentano entrambi un “high concept” di partenza che è stato sviluppato in maniera verosimile e avvincente, ma soprattutto rispettoso delle caratteristiche proprie dei due protagonisti, del loro vissuto e del mondo che ruota attorno ad essi. Così facendo, quelli che dovevano essere solo degli “one shot” hanno invece finito per aggiungere dei tasselli fondamentali alla “bibbia” sia del detective dell’impossibile che dell’agente speciale alfa, aumentando il loro spessore diegetico e, di conseguenza, la loro cifra di profondità esistenziale. Sono storie che – soprattutto nel secondo caso – hanno saputo argomentare quelle che, stiracchiando un po’, si potrebbero definire condizioni necessarie e fors’anche sufficienti per individuare soluzioni eleganti al problema iniziale, ossia la ricerca di coerenza.

Proseguendo la metafora, se la dimostrazione di un teorema costituisce spesse volte la base per esplorare nuovi confini speculativi, non è decidibile a priori che suddetti limiti possano – o debbano – trovare una codifica e successiva interpretazione e modellazione attraverso l’impiego delle potenzialità di un dato linguaggio: è in altre parole quanto esprimeva l’altro problema iniziale che, tornando ai due citati personaggi bonelliani, Adriano Barone si propone di affrontare e per di più risolvere nel primo numero del quinto centinaio della serie regolare di Nathan Never Paradossi universali

Continua…

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

Articolo precedente

“Cinquemila chilometri al secondo” di Manuele Fior

Prossimo Articolo

“L’héritage fossile” di Philippe Valette

Ultimi Articoli Blog