Come visto in questo articolo, con Valley Forge, Valley Forge Garth Ennis ha concluso il suo ciclo sulla serie MAX di The Punisher (salvo tornare a scrivere del Punitore in miniserie ad hoc, n.d.r.).
Il periodo di transizione post-Ennis è affidato ai lavori di Gregg Hurwitz (Girls in White Dresses), Duane Swierczynski (Six Hours To Kill) e Victor Gischler (Welcome To The Bayou) che segnano, con le loro sperimentazioni, un breve ponte che porta all’avvento di Jason Aaron.
Jason Aaron arriva a The Punisher, fresco del successo di critica e pubblico di Scalped, deciso a proseguire e concludere il discorso iniziato da Ennis. L’autore sceglie però per il suo Punitore, sin da subito, una più profonda esplorazione della psiche dei personaggi. Ed ecco che, in un delicato equilibrio tra vecchio e nuovo, l’autore si avventurerà sia in nuovi livelli di violenza, sia in un’analisi profonda della natura dell’antieroe. Un lavoro accurato e complesso quello di Aaron che, prima di dedicarsi con estremo talento e successo a Thor, darà il suo personale e profondo apporto al Punitore esplorandone nemici, compagni e passato.
Kingpin
Punisher Max vol 2 #1-5
Affrontare di petto e direttamente Frank Castle sarebbe stata una impresa a dir poco ardua: troppo intensa e troppo viscerale è stata la costruzione del personaggio da parte di Ennis. Aaron sceglie quindi una caratterizzazione per antitesi, partendo da uno dei villains per eccellenza del Punitore: Wilson Grant Fisk.
Esplorando quindi la profonda e insanabile antitesi morale e ideologica dei due personaggi, Aaron prova a narrare le sfumature e le zone d’ombra nelle quali Castle agisce e si muove. Questo gioco di contrasto tramite il suo antagonista necessita però, prima, della costruzione e della descrizione di Kingpin.
Il racconto segue quindi Fisk – inizialmente un semplice tirapiedi – che inganna i boss della malavita, convincendoli a creare un nuovo sovrano del crimine come esca per eliminare il Punitore. Tuttavia Fisk usa l’opportunità per consolidare il proprio potere attuando una serie di tradimenti e omicidi che lo porteranno infine al ruolo di Kingpin.
Aaron si addentra nel passato di Fisk esplorando il percorso che lo condurrà a diventare Kingpin in quella che si potrebbe definire una metafora della corruzione e della sete di potere intrinseca all’animo umano – il tutto narrato con un tono crudo e quasi privo di redenzione.
Se, di base, Wilson Fisk emerge come un personaggio brutale, ambizioso e manipolatore, man mano che il suo progetto e la sua ascesa procedono l’ambizione cruda e implacabile del personaggio, carica di una pura volontà di dominio ma priva di ideali, si caratterizza per una spietata e quasi incondizionata violenza.
Qui le punte di brutalità e l’assenza di morale toccano vette che nemmeno Ennis aveva sfiorato: o meglio, Ennis enfatizzava la crudeltà degli antagonisti di Castle e usava la violenza come mezzo per esplorare la natura umana. Aaron, invece, porta la violenza a un livello ancora più esplicito e psicologicamente intenso. La violenza non è solo uno strumento di vendetta, ma diventa parte di un ciclo autodistruttivo che finisce per definire Wilson Fisk, le cui sfumature, per contrasto, delineano anche Frank Castle.
La scelta di avere ai disegni Steve Dillon accentua lo smarrimento per il cambio di tono rispetto al primo ciclo di Ennis. Il suo stile grafico enfatizza la brutalità e il realismo del racconto, riuscendo a bilanciare dettagli grotteschi con una pulizia stilistica che rende il tutto più disturbante. La sua estetica priva di eccessi rende la violenza ancora più scioccante.
Le proporzioni e le forme quasi “iconiche” disegnate da Dillon rendono i personaggi di Aaron – Castle e Fisk – al contempo realistici e simbolici, incarnazioni di due forze opposte.
Aaron descrive in questa run la mancanza di moralità come arma di successo nella criminalità, costruendo un Kingpin che rappresenta la degenerazione della società stessa. Al contempo delinea un Castle quasi ossessionato, che si confronta con nemici che rispecchiano il suo stesso cinismo e una profonda disillusione. La violenza di Castle è però viscerale e diretta, guidata da un codice di giustizia, mentre la violenza di Fisk è calcolata e mediata dal suo carisma manipolatore.
Eppure, alla fine, entrambi rimangono intrappolati in un ciclo di violenza.
Bullseye
Punisher Max vol 2 #6-11
Bullseye, già introdotto nella run precedente, è stato capace – con la sua follia borderline – di destabilizzare persino Fisk. Una scheggia allucinata e fuori controllo che però persegue lucidamente il suo obbiettivo: uccidere Il Punitore.
La sua caccia a Frank Castle è innanzitutto psicologica. Già nella scorsa run persegue un folle e delirante viaggio nella mente del Punitore, una sorta di profiling volto a scardinare i topoi di Frank Castle, al fine di comprenderlo per poterlo sconfiggere. Un gioco delle parti, quello messo in scena da Aaron, utile a sviscerare e ridefinire i confini dell’eroe partendo proprio dalla cicatrice più profonda dell’uomo oltre il teschio: la perdita della famiglia.
Ennis aveva esplorato il trauma della perdita della famiglia (In The Beginning) e raccontato brevemente l’infanzia dell’eroe (The Tyger), finendo però per indicare come genesi del Punitore più la guerra del Vietnam che l’omicidio di Maria, Lisa e Frank Junior.
Aaron sceglie invece di approfondire nello specifico proprio le dinamiche e le sfumature del rapporto di Frank Castle con la sua famiglia, andando a raccontare tutti i dettagli precedenti a quel maledetto giorno nel parco. Una discesa nel dolore più profondo dell’uomo, certo sconvolto dalla guerra, ma che avrebbe potuto trovare nella famiglia – forse, a fatica – una possibile salvezza.
L’idea della paternità persiste come un’ombra che lo definisce: il ricordo di un passato in cui era più di un vigilante, un tempo in cui il suo amore per la famiglia rappresentava il suo ultimo legame con l’umanità
Un lavoro, quello di Aaron attraverso Bullseye, che finisce per sconvolgere Castle e per sconfiggerlo.
Questa seconda run si apre infatti con Frank Castle recluso in carcere. Da qui la dicotomia più feroce: il carcere in cui si trova adesso visto in parallelo con la vita a casa con la sua famiglia. Castle, nel periodo del suo ritorno a casa dopo la guerra, viene mostrato come un leone in gabbia, un mostro fuori posto. Un assassino costretto ad essere padre e marito, costretto a rinunciare alla sua vera vocazione: uccidere.
Jason Aaron racconta così un uomo condannato in partenza.
Un uomo che, quando quel pomeriggio al parco ha perso tutto, solo allora per la prima volta (forse), è diventato libero.
Morire? Non significa un cazzo per te.
No… è vivere che ti fa una paura fottuta.
In questa seconda run, quindi, Aaron amplifica il dramma psicologico del personaggio e lo fa esplodere di una violenza interiore che definisce la sua personale genesi del Punitore. La follia e il cinismo della prima run spariscono per lasciare spazio al dolore. Aaron fa tutto questo sovvertendo la premessa alla base dell’eroe, quella della vendetta che da sempre abbiamo pensato muovere l’uomo e costringerlo ad indossare la maschera.
C’è stato un momento in cui rimpiangevo di non essere morto con loro.
Ma so il motivo per cui sono sopravvissuto.
Non è stato per poterli vendicare.
Per poter intraprendere la mia piccola guerra.
È stato per poter soffrire.
A muovere Frank Castle è la sua stessa natura: perché lui è da sempre, sin dall’infanzia, prima della guerra, prima della strage della sua famiglia, il Punitore.
Frank
Punisher Max vol 2 #12-16
Servito al suo scopo, Bullseye esce dai giochi e al suo posto arriva Elektra: ma non l’antieroina tormentata con un codice morale complesso resa celebre da Miller, bensì la fredda assassina senza scrupoli, arma letale al servizio de La Mano. Segue una escalation di violenza e vendetta che riporta in scena l’ex moglie di Fisk – Vanessa – e l’orrore della morte del loro figlio, pedina sacrificale di Fisk alla sua scalata al potere.
Quella che segue è una discesa verso gli anfratti più bui dell’animo umano. Una spirale di violenza senza redenzione con Fisk, assalito dal terrore di Punisher, rinchiuso nella sua torre d’avorio, terrorizzato dalla possibilità di perdere tutto; con Elektra determinata a mettere in moto il piano per rimescolare le carte; con Frank Castle a riprendersi il suo ruolo di Punitore.
Qui Aaron utilizza la paternità non solo come strumento per costruire motivazioni profonde e conflitti interiori, ma anche come una lente attraverso cui esaminare il senso di umanità (o la sua perdita) nei protagonisti, suggerendo che il ruolo di padre può essere una via verso la redenzione o, in alternativa, una condanna.
Homeless
Punisher Max vol 2 #17- 21
È in questa escalation che, pian piano, le differenze tra Frank Castle e i suoi antagonisti tornano a evidenziarsi. Pian piano Aaron, con la sua narrazione psicologicamente violenta, riporta nei consueti binari il suo eroe: è ancora il foiling messo in atto dall’autore sin dall’inizio del suo lavoro che qui trova il definitivo compimento nella ridefinizione del personaggio e dell’uomo.
ll contrasto tra Fisk e Castle si basa su come entrambi percepiscano la figura paterna: per Castle è un sogno distrutto che ancora lo tormenta; per Fisk, è un mezzo per il proprio egoistico progetto di potere e dominazione.
Aaron esplora inoltre la salvezza di Frank attraverso la figura del padre: anche se la sua vita è segnata dalla violenza, Castle si aggrappa disperatamente ai ricordi della sua famiglia, e la sua incapacità di lasciar andare quel ruolo paterno lo definisce, mantenendolo – in qualche modo – umano.
Frank Castle riemerge quindi come eroe. Un eroe esausto, segnato dall’età e dalla violenza del suo percorso, ma ancora mosso da una determinazione incrollabile. Un eroe complesso, con enormi porzioni di buio, ma adesso con sfumature più accentuate. Piccoli dettagli, già esplorati da Ennis (Long Cold Dark), che finiscono per differenziare nettamente l’eore dal villain e il padre dal mostro.
Jason Aaron, dopo tanto dolore, conclude la sua storia su The Punisher rendendo vivida e reale l’umanità del suo eroe. Vi è quasi una catarsi nella scena in cui, parallelamente a Fisk che uccide un uomo dinanzi agli occhi del figlio di questi, Frank seppellisce il corpo del figlio di Fisk.
Non tutti gli uomini meritano di essere padri.
Nonostante quanto visto e narrato, nonostante la paura di vivere una vita che non conosce, forse, davvero, Frank sarebbe stato salvo se quel giorno al parco non fosse accaduto nulla. Forse.
War’s End
Punisher Max vol 2 #22
Jason Aaron e Axel Alonso avevano scelto di concludere questo ciclo di The Punisher con la morte di Frank Castle. L’idea è sempre stata quella di infilarsi nella scia segnata da Garth Ennis e di prosegire quindi la vita e le avventure di Frank continuando a farlo invecchiare.
Man mano che il racconto di Aaron procede troviamo infatti, come visto, un Frank sempre più stanco, più affaticato, che si tiene in piedi per la sola forza della sua missione di giustizia.
L’idea di una figura eroica tanto tragica quanto epica si sposa perfettamente con l’idea della sua morte. Morte che sopraggiunge ad un passo dalla sua casa, ad un passo dalla pace che avrebbe potuto avere, la pace che aveva paura di vivere, la pace che alla fine ha trovato dopo aver ucciso anche il suo ultimo e più letale nemico, Wilson Fisk.
A Nick Fury il compito di spegnere la luce, mettere in ordine le ultime cose e salutare per l’ultima volta il soldato, l’eroe, l’uomo e il padre di famiglia.
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