“Nel limbo”: non potrebbe esserci espressione migliore per definire quella fase dell’adolescenza nella quale ci si sente vuoti, sospesi in mezzo a un guado senza uscita, dove le amicizie diventano esclusive ed escludono, e nessuno sembra capire quel che si prova. Deb JJ Lee a questo sentimento aggiunge il senso di straniamento di chi è diviso tra due mondi, senza radici perché da un lato la lingua materna (il coreano) si è perduta nell’adattamento al luogo dove si vive, dall’altro perché i lineamenti del viso rimandano ad un mondo che al nuovo mondo non appartengono, e che questi stigmatizza.
Se il tema non è nuovo, alla finzione con la quale Adrian Tomine l’ha fatto emergere nella produzione americana (in particolare Difettucci, riedito l’anno scorso) JJ Lee sostituisce il racconto autobiografico. Lo sguardo, sincero e quindi impietoso, non risparmia nulla, né la cerchia familiare, né se stessa, né il tentativo di suicidio, raccontato anche nell’incomprensione e nella colpevolizzazione, propria e altrui, che ne segue.
La materia è grave, ma in realtà la sceneggiatura, benché a tratti ellittica, ne stempera la pesantezza grazie da un lato al ricorso a un approccio narrativo basato sulla quotidianità e dall’altro al disegno. Digitale, il segno si muove tra sfumati di grigio nei quali la linea che delinea le sole forme umane mette a fuoco i personaggi e diventa tratto distintivo, autoriale.
Dopo Tillie Walden, Aj Dungo, le cugine Jillian e Mariko Tamaki, una nuova voce emerge dal fumetto americano indipendente, e leggerla e ascoltarla è salutare.