Vin Diesel mi fa tenerezza.
Ovviamente non glielo direi mai in faccia perché se no mi riduce in fin di vita percuotendomi con il suo mignolo sinistro che ha, probabilmente, più muscolatura del mio intero corpo da lettore ossessivo di fumetti, ma davvero mi fa tenerezza.
Nella sua hubris di messia del film action si pone come testimone dell’epica de “LA FAMIGLIA”: un gruppo di persone solo labilmente unite da relazioni di sangue ma pronte a coprirsi le spalle gli uni con gli altri per una relazione che trascende i concetti consolidati come amicizia e amore.
In questa epica è lo stesso “essere in relazione multipla” con gli altri a giustificare la relazione stessa in un eterno dilemma dell’uovo e la gallina: “darei la vita per LA FAMIGLIA perché sono parte de LA FAMIGLIA, sono parte de LA FAMIGLIA perché darei la vita per LA FAMIGLIA”.
Per un californiano di Alameda sarà stato come interpretare l’Eneide.
Per un giapponese è “martedì”.

Per la cultura Giapponese, per la stessa natura dell’isola in cui è nata e si è formata, un’isola in cui, giusto per essere chiari, fino all’alba del ventesimo secolo QUALSIASI cosa ti voleva UCCIDERE (terremoti, eruzioni, tsunami, monsoni, siccità catastrofiche, guerre civili, ogni specie di bestia feroce e/o velenosa nota in biologia e un certo qual numero di invasori), da sempre l’individuo non conta nulla in confronto al gruppo.
Ed il primo gruppo con cui l’individuo si relaziona è la famiglia, ma la famiglia, in Giappone, è molto meno definita dai legami di sangue di quanto si possa sembrare.
La famiglia è definita, innanzitutto, dalla “casa”. In una cultura in cui da un momento all’altro un intero ramo di consanguinei poteva estinguersi, il legame di sangue doveva poter essere “rimpiazzabile”: un marito di condizione sociale inferiore prendeva (prende ancora oggi) il cognome della moglie, una nuora può essere più “figlia” della figlia andata in sposa in quanto la prima è “entrata” e la seconda è “uscita” dalla casa.
Chiunque abbia nota questa cosa non trova per nulla strano scoprire che nella Yakuza Società di Cavalleria, il capo è chiamato con lo stesso appellativo che si usa per i parenti anziani e tutti i superiori sono “Aniki” (fratellone) e le donne in ruolo di autorità sono “Ane-san” (sorellona). Stessa cosa in molte scuole di discipline marziali o culturali, dall’Aikido al Rakugo in cui addirittura i discepoli prendono il cognome del loro maestro.
Questo per dire cosa?
Non lo so, l’ho dimenticato! Stavo in realtà facendomi bello con cultura spicciola (e dando un motivo a Vin Diesel per percuotermi fortissimo con il suo mignolo sinistro).
Ma parliamo ora di Mononogatari che, stranamente, non è parte dei *Mononogatari di Nisioisin di cui cerco di parlare ogni volta che posso, ma è un manga shonen dell’autore che si nasconde dietro lo pseudonimo di Onigunsou ed è pubblicato da J-Pop.

Al centro di Mononogatari c’è una famiglia (ah, ecco!). Non una famiglia di consanguinei, come si sarà intuito, ma una famiglia di persone che hanno deciso di essere famiglia.
Ho detto “persone” ma in realtà non è esattamente il termine più appropriato. L’unica persona intesa come essere umano a far parte della famiglia Nagatsuki è la giovane ed estremamente seria studentessa universitaria Botan, gli altri componenti sono sicuramente delle “personalità” ma non sono certamente esseri umani. Gli altri sei componenti della famiglia – la bella e autorevole Haori, il mastodontico e silenzioso Kushige, il focoso Nagi, la timida Kagami, la glaciale Yu e l’elusivo Suzuri – sono Marebito, spiriti dell’ “altro mondo” che si sono legati ad oggetti secolari divenendo Tsukumogami.
Tenendo conto che i Marebito sono – per il mondo terreno – una potenziale fonte di pericolo, non per chissà quale innata malizia ma semplicemente perchè “altri” rispetto alla nostra logica ed alla nostra fisica, la convivenza di una fragile orfana umana (beninteso, di prestigiosa famiglia) con costoro è per il giovane Hyoma Kunato un grosso problema da risolvere drasticamente.
Erede della più prestigiosa famiglia di Saenome (mediatori-esorcisti incaricati di gestire i Marebito) del Giappone, a causa di una tragedia accaduta nella sua prima giovinezza risponde con la violenza al primo indizio di potenziali problemi e questo per suo nonno Zohei Kunato, attuale capofamiglia, è un grosso problema da risolvere drasticamente (ho l’impressione di essermi ripetuto).
Come si risolvono drasticamente i problemi secondo la filosofia dello shonen? Facile: li si fa scontrare e si sta a vedere cosa succede.
Così, Hyoma viene mandato per un anno ospite dai Nagatsuki sotto minaccia di essere diseredato se combinerà guai, cosa assolutamente inaccettabile per l’agenda del giovane che gli impone assolutamente di diventare il futuro capofamiglia. D’altro canto anche i sei tsukumogami della famiglia Nagatsuki hanno una loro misteriosa agenda che li porta ad accettare questa presenza dalle uscite imprevedibili.
Il resto saranno equivoci, fraintendimenti, pose da ganzi (anche le donne) e botte da orbi.

Come si intuisce dal tono scanzonato che ho usato: Mononogatari è un manga divertente, con il giusto mix tra commedia degli equivoci, misticismo nipponico e soddisfacente fomento. I personaggi non sono chiaramente nulla di originale ma, nel loro essere aderenti ad uno stereotipo (la gentildonna, il gigante gentile, il rodomonte, la timida, l’inflessibile e lo svagato) emanano il giusto carisma e nel caso di Hyoma diventano pure occasione di bonaria decostruzione del genere stesso, facendo sì che il suo volto severo da “protagonista shonen con un passato tragico” sia al centro di continui fraintendimenti e siparietti.
Interessante anche lo stile del disegno che un pochettino pare ispirarsi al tratto delle CLAMP nel loro periodo shonen, con fisici aggraziati al limite del credibile, forme spigolose, campiture nette e inquadrature dinamiche, senza però arrivare agli eccessi Art-Deco della famosa posse di autrici.
Nulla quindi di originale, nè sicuramente siamo di fronte allo shonen che ribalterà il tavolo dando il via alla “next generation”, ma un gradevole prodotto ben confezionato e disegnato che può ben placare la sete di azione.