“La katana, simbolo stesso del Giappone ed emblema dell’arte di uccidere all’arma bianca, nasce perché ad un certo punto i giapponesi vedono le spade curve degli invasori dal continente, si rendono conto di quanto sono superiori alle loro armi primitive e nei successivi decenni e secoli le fanno, le rifanno, e le rifanno ancora, perfezionandole ossessivamente come perfezionano le porcellane importanti nello stesso modo.
Secoli dopo, arrivano i commercianti portoghesi portando al fianco lame di Toledo: leggere, flessibili, affilatissime.
– Come ottenete un filo così micidiale? – avranno sicuramente chiesto gli abitanti della terra del Sole Nascente.
– I nostri artigiani battono e ribattono la lega di acciaio, fondendola e ritemprandola, fino a 600-700 volte – gli avranno risposto, con sicumera, i portoghesi.
– Ah, sì? Allora noi la ribatteremo 1000-1200 volte!”
Quando voglio raccontare la capacità di sincretismo e contemporaneamente la dedizione alla formula dei giapponesi uso spesso questo aneddoto.
Ovviamente completamente inventato e probabilmente solo lontanamente imparentato con qualsiasi fatto reale, dal momento che io sono un noto cialtrone.
Purtuttavia ritengo che sia una fantasticheria più che adeguata a rendere quanto i giapponesi siano capaci di assorbire le cose che “funzionano” e ripeterle senza seconde considerazioni con una prolificità ed investimento di risorse di cui non trovo equivalenti al mondo.
Anche nel manga è così: qualsiasi formula che funzioni non abbiate dubbio che verrà reiterata 10-100-1000 volte fino a che una nuova formula semplicemente la soppianterà. Non ho i dati (perché sono un noto cialtrone) ma credo che nel manga non sia mai esistito il momento in cui la formula “stanca”.
Non si percepisce il momento di riflusso, ma piuttosto un grafico in cui ci sono solo linee che crescono fino al plateau e poi, improvvisamente, si interrompono: scompaiono senza decrescere. O almeno è così che la vivo io vedendola dall’esterno.
Così c’è stato il momento del post-apocalittico, della fantascienza bio-mistica che riusciva a mettere nella stessa ambientazione cyborg e sensitivi, poi lo tsunami di shonen debitori di DragonBall, i survival debitori di Battle Royale e, infine, l’Isekai: il genere fantasy di cui mi è già capitato di parlare e che parte dalla comoda premessa di prendere un “normale giapponese” e sbatterlo in un altro mondo in cui si troverà convenientemente dotato di capacità che gli permetteranno di dominare.
Nel suo essere apice della fantasia escapista, come dicevo già nei precedenti articoli, il modello è diventato “genere” a tal punto codificato da avere dei punti cardine.
Innanzitutto, contrariamente agli isekai “preistorici” degli anni novanta (Magic Knight Rayheart, I cieli di Escaflowne, Leda, El-hazard) che nascevano da circoli o autori spesso avvezzi a scrivere per il pubblico femminile ed avevano quindi una ragazza come protagonista, la recente ondata che dal 2010 non sembra conoscere crisi è indubitabilmente ed indiscutibilmente rivolta ad un pubblico maschile. Per cui il protagonista è sempre un maschio ed è sempre una persona media tendente al mediocre, destinata a fallire in società se non già abbondantemente fallita (non raramente sono hikikomori – reclusi – oppure neet: disoccupati volontari), che trova quindi nel “transfer” la sua occasione di rivincita o per merito del dono concessogli da chiunque abbia deciso il suo nuovo ruolo oppure perché (ancora meglio) le qualità che ne facevano un fallito sono invece ESATTAMENTE quello che serve per aver successo nel nuovo mondo.
Nemo propheta in patria alla massima potenza.
Ovviamente, quando dicevo che sembra che le mode non conoscano fase di stanca, non significa che i giapponesi siano automi incapaci di volere varietà.
A regole strettamente codificate, man mano che si susseguivano gli anni, sono stati fatti i debiti corollari interpretativi. In alcuni casi si è variato il genere dall’heroic fantasy, al dark fantasy, fin quasi alla trattazione realistica (più o meno) delle implicazioni “politiche” legate al dover ricoprire da un momento all’altro il ruolo di messia salvatore.
Ovviamente sono state esplorate tutte le variazioni di tono, dalla tragedia a base di continui colpi di scena e perdite drammatiche alla commedia caciarona in cui la mediocrità dell’eroe lo pone comunque un passo avanti in un mondo sostanzialmente composto in gran parte da deficienti e sventati.
Altrettanto chiaramente, forse sarebbe meglio dire “conseguentemente”, sono stati esperiti tutti i possibili pretesti per cui il normale giapponese dovrebbe dominare su un mondo alieno minacciato da un male inarrestabile: la fulgida bontà di cuore degli inizi ha rapidamente ceduto il passo alle più fantasiose trasformazioni di competenze da smanettone solitario (lo spregevole doppio senso è voluto, facciamoci una risata) in tecniche invincibili e, infine, sono rapidamente cresciuti di numero gli isekai in cui il protagonista trionfa perché, per quanto il mondo in cui è finito sia popolato di belligeranti, selvaggi, profittatori e potenti, questi sono comunque diversi ordini di grandezza più “ingenui e puri” di un abitante medio della nostra civilizzata realtà.
Gioco, set e partita.
Infine, a titillare il palato di un pubblico che non disdegna l’escapismo estremo, il potere di cui l’eroe diventa detentore si traduce, con molta frequenza, in appeal per il gentil sesso e conseguente formazione di un harem dalle più varie ed esotiche appartenenze (ivi spesso comprese razze femminili fantastiche che vanno dalle classiche elfe e donne gatto ad avvenenti rappresentanti del bestiario da gioco di ruolo: slime, goblin, ogre fin su a draghi, angeli e demoni) con cui il protagonista potrà consumare o meno a seconda del target di riferimento e delle inclinazioni dell’autore.
Ora, con una deviazione solo apparente, chiedo a voi lettori di seguirmi nella rapida esplorazione di un altro genere di escapismo che, pur essendo diffuso un po’ in tutte le culture, in Giappone ha una solida ed inattaccabile fortuna: le relazioni romantiche tra parenti non strettamente consanguinei.
Nella sconfinata produzione giapponese di manga sentimentali “casti”, “scollacciati” o “espliciti”, su una quota standard di zie e matrigne intraprendenti (di gran fortuna anche nella commedia cinematografica italiana), domina incontrastata la “sorella adottiva”.
Dando per scontata la debita premessa che sono un noto cialtrone (alla terza volta assumo che abbiate interiorizzato), ipotizzo che la fortuna di questa figura sia causata da due fattori coincidenti: una cultura estremamente formale e rigida che rende difficile allacciare relazioni e, soprattutto, relazioni sentimentali adolescenziali che si somma all’occorrenza molto frequente per un adolescente giapponese di trovarsi “adottato” in una famiglia diversa o a causa del dissolversi di quella originale oppure per la prolungata e completa assenza dei genitori causa lavoro.
Ecco allora che trovarsi “obbligato” a dividere gli spazi di vita intima con una persona anch’essa in maturazione personale e sessuale, ma non consanguinea, diviene fonte di fantasie
(nota a margine: come ebbi modo di notare già una volta, questa fantasia ha molto meno effetto su persone che hanno una sorella o un fratello).
Finalmente, dopo non una ma ben DUE dissertazioni, ecco che entra in scena Game of Familia, mettendo di fronte al lettore un Normale Studente Giapponese trasportato in un mondo fantastico in cui le razze senzienti rischiano l’estinzione a causa della minaccia dei “Dead Males”: zombie rigorosamente di sesso maschile di origine ignota guidati da due sole pulsioni, quella omicida e quella sessuale (echettelodicoaffare?).
Il nostro Sasae Hatsushima non è però l’unico “evocato” in questo mondo ma vi è giunto con tre donne straordinarie: Kanae, “l’imperatrice” capace di gestire con la stessa facilità un’azienda di centinaia di dipendenti o i lavori domestici, di poco più anziana; Manako, abbronzata campionessa di arti marziali, sua coetanea; Hinana, enfant prodige pronta ad abbandonare le scuole primarie per saltare direttamente all’Università.
Costoro sono, rispettivamente, la giovane moglie di seconde nozze del suo defunto padre e le di lei sorelle.
Ora, raccontare nel dettaglio la trama che si va a sviluppare dopo l’ampia introduzione fatta sarebbe tedioso e probabilmente inutile: in termini di sviluppi interpersonali tra i protagonisti succede esattamente quello che vi aspettate.
Resterà invece stupito il lettore, come sono stato stupito io, di scoprire che è invece nello sviluppo generale e nell’evoluzione della Persona Normale (come lui stesso tiene a rimarcare più volte) Sasae che si trovano sviluppi inaspettati eppure perfettamente coerenti costruiti su un singolo dettaglio taciuto abilmente per tutto il primo volume dall’autore, Mikoto Yamaguchi già noto in Italia per Dead Tube.
È proprio questa costruzione coerente, sfruttata con molta astuzia ed arguzia, a riscuotere apprezzamento al punto da far quasi pensare che le carrettate di facili titillazioni buttate a piene mani sul lettore siano un sarcastico premio nella stessa misura in cui sono comode esche.
Impressione rafforzata dal fatto che in tutti i volumi finora pubblicati, mentre i personaggi femminili mostrano carattere e senso pratico nel farsi carico delle loro responsabilità o delle loro ambizioni, lo stesso non si può dire dei personaggi maschili, che quando non sono delle becere mezze tacche o violenti arroganti sono comunque potentissimi impotenti legati da costrizioni che hanno accettato senza senso critico. Non fa eccezione il protagonista, redento forse dal solo fine che lo spinge e dall’essere il punto di vista del lettore.
Se la scrittura quindi cela una sorpresa che fa sì che una costruzione di pura spazzatura si nobiliti fino a diventare “accettabile intrattenimento” (non vorrei che si pensasse di trovarsi di fronte ad un manga imprescindibile: non lo è), il tratto di disegno ad opera del misterioso D.P. – autore specializzato tanto in isekai quanto in manga erotici – la supporta pienamente con una cura più che adeguata tanto nella resa con ampi dettagli di un mondo fantasy “standard” quanto, ovviamente, nelle anatomie dei personaggi e nella stesura di tavole dinamiche e di impatto drammatico, incespicando magari un po’ (anzi, molto) quando l’azione si fa frenetica o si moltiplicano gli attori in scena.
In sostanza, come anticipato, Game Of Familia non sarà certo un manga che segnerà in maniera indelebile la vostra esperienza di lettori ma se di attitudine applicate la giusta ironia all’evidente e sfacciata “exploitation” lo troverete un divertente intrattenimento sia a livello testuale che metatestuale.