Nick Raider: di giallo intenso e di giallo opaco

///
8 mins read

Uno sguardo d’insieme alla miniserie dedicata a Nick e soci

In coda all’analisi del numero d’esordio di questa miniserie ci si augurava che i toni andassero per quanto possibile in crescendo; si può dire che la speranza sia stata in buona parte esaudita.
Il merito è doppio: sia in fase di scrittura che di resa visiva, infatti, è netto il distacco dal n.1, ed è forse in questa occasione più che in altre che si nota come le nuove generazioni di autori – bonelliani, in questo caso – siano inevitabilmente debitrici nei confronti dei nuovi stili di narrazione di derivazione cine/televisiva, i cui fondamentali ritroviamo infatti qui chiaramente applicati.
Va da sé ovviamente che il discorso sulle mutue influenze nel tempo tra le varie forme dell’arte e della narrazione, è materia estremamente ampia e variegata, per cui ci basti in questa sede analizzarne solo alcune ricadute di più diretto interesse.

Il Nick Raider di Giovanni Eccher e Davide Rigamonti

Dicevamo, quindi: Eccher e Rigamonti, autori dei rimanenti numeri della miniserie, hanno entrambi un curriculum ormai solido in Bonelli, che spazia attraverso più testate dalle diverse caratterizzazioni (da Dampyr a Dylan Dog, passando per Zagor, Nathan Never e Greystorm). Eccher in particolare vanta anche precedenti esperienze nel campo delle arti visive.
La loro personale interpretazione di Nick Raider è in primis figlia della volontà di calare il nostro ex-agente-ora-tenente della polizia di New York in un discorso di continuity, proprio dei nostri tempi, distaccandosi pertanto in maniera forte dall’originale versione nizziana del personaggio, che fondamentalmente viveva e concludeva ciclicamente il suo arco diegetico vitale nell’arco delle 94 pagine mensili (o qualcuna di più, nel caso degli speciali): questo, unitamente alla fondamentale ripetitiv riproducibilità dell’impianto narrativo, non ha mai realmente consegnato al lettore, se non in limitati casi, un personaggio con una levatura introspettiva di rilievo – perlomeno se confrontato con altri “colleghi” della stessa casa editrice.
D’altro canto, le esigenze, consapevoli o meno, del lettore della fine del XX secolo non hanno mai alimentato la necessità da parte degli autori di provare a rimaneggiare il piccolo mondo raideriano più di quanto non avesse già fatto lo stesso Nizzi; è quindi verosimile pensare che, anche per questo motivo, la serie sul lungo periodo abbia mostrato la corda e, nonostante un indubbio affetto da parte dei lettori, sia arrivata ad un capolinea.
Come già detto, è questo il Nick Raider che compare ancora nel primo numero della miniserie; dal numero successivo, però, Eccher e Rigamonti iniziano a posizionare i mattoni di un’impalcatura narrativa che: (i) si snoda su due direttrici temporali intrecciate tra loro; (ii) viene arricchita da una serie circostanziata di rimandi interni, che il lettore può cogliere solo a seguito di una sessione di binge reading; (iii) ha l’ambizione di scuotere dalle fondamenta il piccolo mondo di cui sopra – sebbene per farlo necessiti dell’introduzione di elementi ad esso esterni, quasi a marcarne una volta di più l’originale insita rigidità e inadeguatezza (lo si intenda ovviamente sempre con tutto il rispetto per la materia narrativa in questione).

Una miniserie, due pilastri temporali

Andando più nello specifico, la miniserie si può dividere in due tronconi principali.
Nel primo, che si estende fino al quinto numero, lo stesso espediente viene riproposto con minime variazioni: Nick e soci, sulla base di uno scambio di battute, un ricordo o un’associazione di idee, rinvangano vecchi casi che abbracciano un arco di tempo di poco superiore ai venti anni, mentre sullo sfondo si dipana molto lentamente una trama orizzontale, che viene resa manifesta appunto solo nel quinto numero. Le trame orchestrate in questi numeri si prefiggono inoltre di percorrere in modalità fast forward l’evoluzione del rapporto tra Nick e gli altri comprimari (in primis Marvin): esigenze certo nate dall’impostazione narrativa “moderna” adottata, ma che in più di un caso portano a siparietti che spezzano il ritmo della narrazione – se nella stessa storia vuoi mostrare un caso del passato, il carattere inizialmente più spigoloso e scavezzacollo di Nick, il progredire del suo rapporto di fiducia con Marvin, ma anche piazzare qualche easter egg che riprenderai in seguito, oltre ad un pizzico di trama orizzontale, è facile che la maionese possa impazzire e fare grumi qui e là.
Nel secondo troncone il doppio binario temporale rimane in qualche modo ancora in piedi, ma stavolta il rapporto tra eventi del passato (arrivati al 2010) e quelli del presente (2019) diventa sempre più stretto; in particolare, i numeri 7 e 8 ospitano una storia doppia che conclude in qualche modo l’indagine del 2010, mentre nei numeri 9 e 10 si tirano le fila dell’intera miniserie (compresi controfinale e twist). Accanto a questi, il numero 6 introduce ufficialmente il Nick del presente assieme ai componenti della sua nuova squadra, la quale risponde in maniera anche troppo pedissequa a quante più possibili istanze di inclusione: l’hacker di origine indiana (dell’India!), l’agente tosta alla Legs Weaver, il suo partner omo (che non manca occasione di dire/far notare che è gay), la patologa sessualmente disinibita che gioca a far sciogliere il collega “ingessato”, il quale è tra l’altro “figlio d’arte” in quanto attuale capo della scientifica e figlio dell’allora capo della scientifica (talis pater…). A ciascuno di questi viene poi dedicato un minutaggio minimo per presentare le loro peculiarità fisiche e comportamentali.

Proprio in mezzo a tutta questa varia umanità, a spiccare in negativo è proprio Nick: è vero che lui ora è un tenente – e quindi più uomo di coordinamento che di azione, come lo era ai suoi tempi Art Rayan – che però non disdegna alla fine di gettarsi in prima persona nella mischia, tuttavia al di là di questo la miniserie non offre alcun elemento sostanziale che indichi un qualche percorso di evoluzione del personaggio. Se ciò viene poi a sommarsi con il discorso sull’esiguità dell’approfondimento psicologico di cui prima, si capisce come lo sforzo degli autori di “cavare sangue da una rapa” sia stato di certo rimarchevole, ma ciononostante relativamente povero nel risultato finale.
Diverso è invece il caso dei comprimari di Nick, per i quali gli autori aggiungono alla parva materia iniziale delle suggestioni originali fornendo al lettore elementi, seppur scarni, su cosa sia loro avvenuto “dopo”: è il caso di Marvin, così come (in misura minore) di Art e Alfie. È per ovvie ragioni il caso di Jimmy, perno su cui si snoda in pratica l’intera vicenda, ma in questo caso attraverso l’elemento esterno di cui prima si diceva, ossia il giovane Matt, talento informatico e protégé dell’esperto di computer del distretto centrale di polizia. Leggermente diverso è invece il caso del capitano Philip “ciaocara” Vance, che risulta di gran lunga il personaggio meglio tratteggiato di tutti, distante anni luce dalla macchietta che ricordavamo dalla serie originale, e anzi finalmente presentato come figura carismatica e reale elemento di spicco e di riferimento per il distretto.

Meriti (e demeriti) dell’impianto grafico

Il comparto grafico è stato affidato ad un gruppo composto quasi interamente da giovani e brillanti disegnatori, quali Marco Foderà, Massimo Cipriani, Ivan Vitolo, Ivan Zoni e Rosario Raho – quest’ultimo autore anche delle copertine. L’unica eccezione è nel numero 2, illustrato dal veterano Mario Jannì.
Anche in questo caso il distacco appare netto rispetto alla resa “classica” dell’universo raideriano: la gestione del ritmo è sempre sostenuta; la scansione delle tavole, pur non indulgendo in chissà quali acrobazie d’inquadratura, denota la presenza di una regia ispirata alle moderne serie tv di tipo procedural; la pulizia e l’attenzione ai dettagli, anche in situazioni di eutrofia grafica, sono costantemente curate. Un paragone che viene da fare è quello con la serie nostrana Diabolik, le cui storie rispondono ad un decalogo molto rigido per quanto concerne la realizzazione e la cura sia dei testi che dei disegni, a cui però corrisponde un elevatissimo livello di coerenza (in questo caso la parola più corretta da utilizzare sarebbe l’inglese consistency, che centra appieno il senso della frase). Nel nostro caso, anche se i diversi autori presentano cifre stilistiche peculiari e riconoscibili, il risultato finale è quello di un prodotto internamente correlato e globalmente compiuto in sé, ed è un risultato tutt’altro che scontato.
In appendice, va ribadito l’appunto fatto alle cover nell’analisi del primo numero: le composizioni finali soffrono infatti fino alla fine di un eccesso di staticità, con personaggi in pose quasi calcolate, dando così un’idea di posticcio. In questo caso, il confronto con il compianto Ramella risulta chiaramente a vantaggio di quest’ultimo.

“I am too old for this shit”

(cit. Roger Murtaugh, Lethal Weapon 1987)

Tirando le somme, la pur anticipata generale bontà dell’esito finale trova un evidente limite nella gestione dell’anagrafica dei personaggi. Partiamo da alcuni elementi assodati: da un lato, i personaggi dei fumetti seriali raramente invecchiano. Se lo fanno, il fenomeno avviene comunque in maniera molto più rallentata che nella realtà – basti pensare a Martin Mystére che, pur essendo un personaggio relativamente calato nelle maglie del realismo (ha infatti una data di nascita ben precisa e documentata, tanto per dirne una), dimostra meno anni di quanto dovrebbe grazie all’azione di alcuni acconci artifizi. Da questo punto di vista, Nick e soci non sono mai invecchiati fintantoché la serie regolare è andata avanti, salvo poi ritrovarli ora tutti un po’ più agée dopo soli nove anni dagli ultimi eventi che li avevano visti lavorare insieme.
A ciò si affianca un altro interessante fenomeno legato alla serialità: come nei Fantastic Four (giusto per fare un esempio poco noto) Reed Richards e Susan Storm hanno avuto due figli che sono nel tempo cresciuti – mentre i due fantastici genitori sono rimasti pressochè identici – anche qui vediamo il famoso “elemento esterno” Matt Barnes venire introdotto come un bambino di circa 10 anni, per poi essere presentato numero dopo numero prima come adolescente, e infine come adulto, mentre il protagonista eponimo della serie ed i suoi comprimari rimangono sempre uguali a se stessi (fatto salvo per il solo Vance che qualche spruzzatina di grigio inizia a presentarla, ad un certo punto).

Questa discrepanza, evidente sul lato grafico, mina quasi alle basi l’ostentazione di realismo con la quale gli autori hanno deciso di improntare la miniserie, inducendo più di un motivo di confusione nel lettore. A questo, se vogliamo, si aggiungono altre incongruenze più lievi, come le età di Rayan e Vance (se Rayan ha 84 anni nel 2019 ed è in pensione già da un po’, Vance non dovrebbe avere anche lui superato da un pezzo la settantina? O non esiste un limite massimo di età per le posizioni di comando nei distretti di polizia statunitense, prima del sospirato congedo?), o il fatto che un certo elevato livello di pervasività dei social venga descritto come già presente nel 2010.
Discorso a parte meriterebbe la dinamica che sottintende la trama orizzontale. In breve: (i) viene applicata la regola (come bene o male da Lost in poi) secondo cui nessuno dei personaggi principali è inamovibile, e per specifiche scelte di trama la scelta è caduta su Jimmy Garnet. Già questo è un fatto anomalo rispetto alla grammatica nizziana di Nick, e offre agli autori una sfida non da poco; (ii) il lettore (o meglio, lo spettatore) più smaliziato capisce abbastanza presto dove in generale si andrà a parare – è il solito discorso del minutaggio: se ti concentri molto su Jimmy, e inoltre introduci anche una figura che ne accompagni l’evoluzione, è chiaro che il focus della trama riguarderà temi più legati alla sua sfera di competenze; (iii) senza voler spoilerare eccessivamente, il terzo atto non “osa” più di tanto e, nonostante gli accidenti sulla strada ci siano e rimangano, si preferisce non sconfinare troppo dalla solita “troppo italiana” comfort zone.

Se vogliamo, tutti questi aspetti possono comunque essere ascritti allo sforzo di cui sopra da parte degli autori che, partendo da materiale stilisticamente retrò, hanno imbastito una storyline di taglio attuale, potendo anche contare su un bagaglio notevole di spunti e rimandi che vanno da Fight Club a Mr. Robot, passando per un qualche Universo Marvel; il risultato premia in ogni caso la bravura di tutti gli autori, tanto dei testi quanto dei disegni, e dimostra che è tecnicamente possibile riprendere un personaggio del passato e riportarlo in pista con tutto il peso dei suoi anni in più (vedasi ad esempio, tanto per continuare il paragone con il grande e il piccolo schermo, l’operazione fatta con le ultime due stagioni di X-Files, andate in onda circa sedici anni dopo la conclusione del precedente ciclo di eventi).
Rimane però da chiedersi, in ultima istanza, quanto (e se) sia auspicabile attendersi una seconda stagione di questo nuovo/rinnovato filone.

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

Articolo precedente

Keep your hands off Eizouken! #6

Prossimo Articolo

Zagor: le storie preferite da Alessandro Piccinelli

Ultimi Articoli Blog