Superman: Stagioni, di Jeph Loeb e Tim Sale
Sul finire degli anni Novanta Jeph Loeb, seguendo la linea tracciata da Frank Miller e David Mazzucchelli con Batman: Anno uno, decise di raccontare le icone DC Comics partendo dalle loro fragilità, dal loro aspetto più insicuro e fallibile: l’essere umano.
Dopo Batman: Il lungo Halloween in cui ci aveva mostrato un Bruce Wayne complesso e tormentato, più dedito alle indagini (con tanto di errori di valutazione) che alle acrobazie, è la volta di Superman che – nel ciclo Stagioni – viene mostrato e raccontato non come l’invincibile Uomo d’acciaio bensì come il giovane Clark Kent: il timido ragazzone del Kansas.
Perché Superman è Superman?
Superman: Stagioni è, per l’appunto, diviso in stagioni. Ogni stagione ha un narratore che racconta l’uomo sotto il mantello: si comincia con la primavera raccontata attraverso i pensieri di Jonathan Kent a cui fanno seguito le altre stagioni con i racconti di Lois Lane, Lex Luthor e Lana Lang. Ogni narratore ha infatti contribuito, nel bene o nel male, a definire il personaggio di Superman/Clark Kent. Ed è questa la domanda che Jeph Loeb pone alla base della sua opera: perché Superman è Superman?
Non gli interessano però le origini aliene, né tantomeno la sua forza alimentata dal sole o gli effetti della kryptonite. Come anticipato, a Loeb interessa capire perché un uomo con quei poteri decida di impiegarli per proteggere il genere umano; cosa spinga Clark Kent ad indossare il mantello ed a scagliarsi contro un missile. Quindi, quanto e come Clark Kent definisca Superman.
Il valore dei Padri
La risposta è già palese nel primo capitolo, l’estate, raccontato attraverso i pensieri del padre che vede un figlio, per quanto enorme e potente, ancora fragile e insicuro. Jonathan Kent, nella sua semplicità fatta di gesti essenziali, riesce a mostrare al lettore la consapevolezza di un padre che non può più proteggere il figlio, che può solo guardarlo affrontare il mondo e le scelte della vita, consapevole che le vivrà ispirato dall’esempio paterno.
Per Jeph Loeb, quindi, alla base della forza e delle scelte di Superman vi è il rapporto con la sua famiglia, la forza e l’esempio di Jonathan e Martha Kent. Non a caso, qualche anno dopo, Mark Millar lo confermerà per negazione nel suo Superman: Red Son.
Non da meno, Clark è nella sua famiglia e nel piccolo paesino di Smalville che troverà sempre forza e rifugio da quel mondo che è ormai deciso ad affrontare e proteggere.
La fattoria dei Kent come rifugio di Superman diviene così un fil rouge che attraversa tutte le stagioni: Clark vi si nasconderà durante l’estate come raccontato da una invaghita e straripante Lois Lane; vi si ritirerà durante l’autunno, caratterizzato dall’odio di Lex Luthor e vi ritornerà per l’inverno, come narrato da Lana.
Jonathan: “C’è così tanto che non sappiamo, Martha. Diventa ogni giorno più forte.
Con poteri e abilità che sembrano sconfinati. Con cosa abbiamo a che fare?”
Martha: “Jonathan Kent non hai abbastanza fede in Clark o in noi! Lo abbiamo tirato su bene!”
Jonathan: “Forse sì Martha, forse sì…”
Smalville
La necessità di tornare a Smalville è il manifestarsi in Clark della consapevolezza che i suoi superpoteri, per quanto ormai accettati e definiti, non siano sufficienti a farlo sentire a suo agio con se stesso e con lo spazio che lo circonda. La fragilità messa in risalto da Luthor è la fragilità di un uomo che ha la forza di piegare l’acciaio ma che fatica a trovare un suo spazio nel mondo e una misura “giusta” per rapportarsi ad esso.
Il ritorno a casa diviene quindi non una fuga, ma una pausa: l’unica maniera che Clark ha per prendere fiato, raccogliere i pensieri e trovare le risposte e la forza per essere Superman.
L’idea della cittadina del Kansas come motore sia morale che fisico della genesi del supereroe troverà poi modo e tempo – anche con la serie televisiva Smalville che vedrà lo stesso Jeph Loeb come consulente – di rimarcare il suo valore, dando ancora risalto tanto al ruolo dei genitori quanto a quello di Lana.
Il Clark Kent di Tim Sale
Tim Sale, anche in questa occasione, è perfetto nel delineare l’enorme forza di Superman riuscendo nel duplice e improbo compito di comprimerla in un’impacciata salopette e di farla esplodere in un fiammante mantello.
Nonostante il trattamento grafico sia il medesimo, il compianto artista riesce con poche linee a rendere perfettamente la dicotomia Clark/Superman tratteggiando con maestria le espressioni e le forme impacciate di un ragazzo ancora insicuro e non a suo agio con la straripante forza e le responsabilità che ne derivano e la dinamicità dell’eroe che si lancia nel cielo col suo mantello. Le poche linee che delineano il volto turbato del ragazzo di campagna si assottigliano, gli occhi quasi scompaiono e l’espressione dell’uomo d’acciaio si manifesta nel lettore in tutta la sua sicurezza. Un gioco elegante e misurato quello di Tim Sale che trova compimento nei colori di Bjarne Hansen, arrivando a punte di lirismo ancora oggi iconiche.