Cari lettori. Come ricorderete, per un guasto alla stampante un ardito esperimento di fidelizzazione, per qualche giorno questo articolo è stato pubblicato con immagini diverse dalle consuete immagini del fumetto. Ora potrete godere delle immagini reali dell’opera di Boichi. Se poi per farvi una risata scientifica curiosità verso le moderne tecniche pubblicistiche voleste vedere l’edizione originale, la trovate qui.
Esiste qualcosa che può scusare una trama risibile, approssimativa, priva di credibilità, eticamente discutibile e colma di allettamenti alle pulsioni ed emozioni più basilari? Sì, si chiama passione.
C’è qualcuno che può essere definito un professionista della passione? Sì, si chiama Boichi (nome d’arte del coreano Mujik Park).
Ho davvero iniziato una recensione con due domande retoriche? Ammazza, se l’ho fatto!
Passione, si diceva, anzi, da titolo diciamo pure “Passione Senza Vergogna”. Così possiamo descrivere Sun-Ken Rock, forse l’opera che ha consacrato Boichi prima in oriente e poi nel resto del mondo, pubblicata completamente dalla solita J-Pop, casa editrice anch’essa con due o tre cosette da dire in quanto a passione.
E potrei finire la descrizione qui.
Ma visto che, alla fine, quanto a passione ho anche io un po’ di voce in capitolo, continuiamo.
Se guardiamo alla trama di “Sun Ken Rock” ce la caviamo abbastanza in fretta: Ken Kitano è solo l’ennesimo “non normale studente giapponese”. Conoscete il tipo: bulletto atletico e rissaiolo praticamente imbattibile che si innamora della bella e gentile Yumin Yoshizawa e viene travolto da un due di picche gigante ipso-facto. Vi ricorda qualcosa tutto ciò?
In realtà, come scopriamo subito, “il problema non è lui, è lei!” nel senso che la ragazza ha deciso di lasciare la scuola e tornare in Corea (di cui dice di essere originaria) per diventare una poliziotta. L’impulsivo Ken decide di seguirla, ma succederanno cose che, invece di fare di lui un poliziotto, ne faranno il difensore segreto dei deboli e degli oppressi, il terrore degli approfittatori e degli sfruttatori in colletto bianco, che usano stato, legge e democrazia come si userebbe uno sgabello per farsi lustrare le scarpe. Un potente giusto, un condottiero che si mette in prima linea ed usa i suoi pugni e la sua mazza da baseball per aprirsi la strada fino al cuore dell’ingiustizia.
Un mafioso.
Ecco. Sento già il distinto suono di un “Vaffa” che viene fatto cadere come una mannaia sulla trama.
D’altro canto, i cultori del manga sapranno che non è neanche la prima volta che nel lontano oriente viene narrata questa storia: il mafioso come eroe non vincolato dalle pastoie della legge distorta ed asservita agli interessi delle mezze-maniche di alto bordo.
Ryoichi Ikegami ci ha costruito quasi tutta la sua carriera, tra Crying Freeman e Sanctuary, e persino Tetsuo Hara, anni dopo Ken il Guerriero, aveva creato Ryusei il Temerario. Anzi potrebbe essere proprio quest’ultimo, uscito nel 1995, ad aver ispirato l’opera di dieci anni dopo (2006) di Boichi.
Il protagonista Ryusei era infatti un ex-teppista che, tornato in città, scopre che la sua ex-gang di “innocui” motociclisti è stata ridotta al ruolo di galoppini dello spaccio di droga. Infuriato si scontrerà con l’organizzazione criminale che ne ha preso il controllo ed arriverà fino a Hong-Kong, facendosi notare da un capo-mafia emergente con sincere aspirazioni di rinnovare la società.
In entrambi i casi, questi giovani “giusti” giapponesi, ottengono l’occasione per “lasciare il segno” fuori dal Giappone, Hong-Kong per Ryusei, la Corea per Ken Kitano. In entrambi i casi, lo abbiamo già detto, non sono “normali” giovani giapponesi in quanto sono invincibili ed incrollabili nella loro etica. Gli autori sono “svergognati” nel costruire questi “superuomini” che giustificano la loro scelta di appartenere ad un “parastato” di cui c’è proprio poco di buono da dire (e, nel mondo moderno, praticamente NULLA) per il solo fatto di essere loro “i più giusti”.
Del resto Tetsuo Hara aveva dato a Ryusei praticamente il volto di Kenshiro e, se la memoria non mi inganna, il capo-mafia hongkonghese che lo adotta è molto simile al fratello Toki, che a sua volta aveva una imbarazzante somiglianza con Gesù Cristo, insomma… più esplicito di così.
Boichi da parte sua non è da meno, una volta “innescato”, Ken Kitano raggiunge livelli di sacrificio, giustezza e decisione che trascendono rapidamente l’umano. Non solo ogni sofferenza diventa sua, ma il suo primo motore, l’amore per la bella Yumin, resta inalterato e puro tanto da permettergli di rifiutare le carrettate di giovani coreane, una più bella dell’altra, che affascinate dalla sua determinazione, letteralmente “gliela gettano addosso”.
Di nuovo, Boichi è “svergognato” in questo: Sun-Ken-Rock è una passerella di giovani donne una più attraente dell’altra, quasi sempre mostrate discinte in copertina, che più volte a volume mostreranno le loro grazie al lettore.
Ma non solo: nonostante il tema “action” e leggero, Sun-Ken-Rock è un manga “seinen”, destinato ad un pubblico adulto, e Boichi non ha nessuna remora, nessuna vergogna, a ricordarcelo. Al di là dell’obbligatoria censura degli organi genitali, nient’altro impedisce all’autore di mostrare integralmente le conseguenze del rapimento di una ragazza destinata alla prostituzione, dell’ingresso di una giovane aspirante artista nella stanza di un produttore disonesto o, più candidamente (diciamo così) dei tentativi delle già menzionate fanciulle, la guerriera He-rin, in testa, di “arrivare al dunque” con l’elusivo Ken.
L’esperienza, come lettore, è abbastanza “imbarazzante” e porta ad escludere vigorosamente sia di lasciare i volumi a portata di un giovane adolescente, sia di leggerlo in mezzo alla gente, sul classico mezzo di trasporto tra casa e lavoro tanto le immagini lasciano proprio poco all’immaginazione.
Immagini che, a loro volta, urlano “passione” ad ogni microgrammo di pigmento posato. Lo stile di Boichi, tendente ad un “realistico-estetico” di nuovo accomunabile tanto ad Ikegami che ad Hara, descrive anatomie perfette ed apollinee quasi sempre tese all’azione. Se i personaggi sono nudi o seminudi abbiamo un tripudio di muscoli in tensione ed articolazioni dettagliate, quando sono vestiti allora quasi sempre è un panneggio di completi di gran marca ed uno svolazzo di code di trench ed impermeabili. Le coreografie di combattimento, punto forte di un manga d’azione, sono curate al dettaglio, cariche ed esplosive: complice anche la follia (qui, andiamo oltre la “passione”) dell’autore che si è cimentato, lui ed i suoi assistenti, nel tentare di “riprendere dal vivo” i movimenti che avrebbe poi disegnato; con risultati testimoniati dalle fotografie incluse nei volumi che variano tra l’esibizione di arti marziali, i blooper di un film di Jackie Chan e una recita di ubriachi. A questo si unisce una matura comprensione di quelli che sono i ritmi e le potenzialità della tavola, sfruttate senza alcuna economia in una mitraglia di dettagli, primi-piani, campi lunghi ed immagini sovrapposte, rotte solo dall’occasionale vignetta “super-deformed” che alleggerisce il tono e restituisce un po’ di umanità (grezza, umanità) al protagonista ed ai suoi eroici compari.
Ma fosse solo questo, forse non basterebbe per parlare di mancanza di vergogna. Quello che rende Boichi spudorato, e che fa capire quanto per lui fosse “naturale” disegnare Sun-Ken-Rock è anche la scioltezza con cui riesce ad esporre, in un manga completamente escapista, il lato oscuro della storia contemporanea del suo paese. E’ con un po’ di stupore che il lettore viene a scoprire quanto la Corea del Sud sia ormai completamente ostaggio di una bolla immobiliare completamente fuori controllo, che tutti, a livello nazionale ed internazionale, hanno deciso di ignorare a qualsiasi costo, consci che nulla sopravviverebbe alla sua esplosione. Vengono citati episodi infamanti come la partecipazione “diplomatica” dell’esercito sudcoreano alla guerra del Vietnam, che si tradusse in massacri di civili “per far presenza”: un ulteriore scarto di non senso nell’abisso dell’insensatezza. Oppure le violenze ai danni delle comunità di immigrati asiatici, cinesi in testa, avvenute in tempi recentissimi e, di nuovo, completamente occulte al resto del mondo.
Il tutto poi condito dalla fiducia che “i veri coreani”, con l’aiuto del bravo giovane (mafioso) giapponese, sapranno fare ammenda del loro passato e proteggere tutti in futuro. Un discorso talmente utopico e ingenuo da non riuscire a suonare falso.
Ultimissima cosa, e chiudo.
Ma come si può non definire “svergognato” un disegnatore che dedica tale “pornografico” dettaglio ad un piatto tipico?