“Chi ha occhi profondi che fanno colare difficilmente le lacrime, deve cominciare a piangere in tempo per poterle versare contemporaneamente agli altri”
da “La Cresta Rossa del Gallo” di Michel Koffi.
Fadonougbo Koffi Michel è nato il 12 ottobre 1963 a Doissa Savalou in Benin. Laureato in giurisprudenza nel 1986, si è specializzato nello studio delle società tradizionali del Benin. Dal 1987 al 1991 ha insegnato all’università a Cotonou (Benin), e all’Istituto tecnico e commerciale di Douala (Camerun). Sul piano artistico e associativo ha fondato diversi movimenti culturali in Benin, Camerun e Italia. Ha diretto conferenze e workshop sulla letteratura orale e le società tradizionali africane in Europa.
Attualmente consigliere comunale a Rho, Michel Koffi è dal settembre 2013 Presidente dell’Associazione Città del Mondo che rappresenta le comunità migranti di Milano e provincia.
Con Feltrinelli ha pubblicato La Pedagogia di un Griot. Michel Koffi è infatti un Griot, che nella tradizione del suo popolo è il cantastorie. Presso i Mahì del Benin, e precisamente nel Clan Daminnu (letteralmente il clan degli uomini dai capelli folti) le sedute di narrazione delle fiabe hanno due funzioni: una rituale e l’altra di divertimento ed educazione.
Le riunioni rituali di favole sono organizzate in memoria di un defunto, durano tutta la notte e sono condotte dal più celebre narratore del clan. Michel Koffi (nome d’arte più semplificato con cui si presenta all’interlocutore europeo) ha un viso sempre sorridente e parla perfettamente italiano: “Anche le adunanze ordinarie per scopo educativo si svolgono durante la notte, come quelle rituali per i defunti, solo che in questo caso non servono a far memoria del caro estinto, ma servono a trasportare dolcemente gli ascoltatori nel mondo dei sogni. Ovviamente si possono ascoltare narrazioni anche di giorno e la tradizione africana e in particolare quella della mia tribù, vuole che si prendano le proprie palpebre con le dita e le si tiri un po’ per far credere alla propria coscienza che la seduta si stia svolgendo quando il sole è già calato.”
Ed è sull’onda di questa tradizione che Michel Koffi, giunto qui in Italia, ha deciso anni fa di trasportare su un testo scritto ed illustrato quello che la sua tradizione culturale imponeva ancora oggi di tramandare solitamente per via orale. Per farlo si è servito della collaborazione di Tiziano Perotto, illustratore italiano che fin dagli anni settanta, lavora per agenzie di pubblicità e per l’editoria. Per Emme Edizioni, Perotto ha illustrato “Le navi fantastiche” e disegna per riviste di scienza e architettura. Lavora per De Agostini, Giorgio Mondadori e Fratelli Fabbri RCS (per cui disegna spaccati di antichi e moderni velieri). Suoi lavori sono stati selezionati per la Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna.
Michel Koffi e Tiziano hanno così realizzato in collaborazione La Cresta Rossa del Gallo pubblicato tre anni fa dalla Casa Editrice “Come” che è una casa editrice di testi da strada che si serve per la diffusione, non di librerie specializzate ma di giovani immigrati che altrimenti sarebbero senza alcun lavoro.
La Cresta Rossa del Gallo è una fiaba in cui si spiega come mai il Gallo, chiamato in lingua Mahì, Cocolo-Assu, abbia sulla testa la cresta rossa, come mai si è preso l’impegno di cantare al mattino per invitare gli uomini al lavoro e come mai il Picchio, Attingli-Becché, passa il tempo a fare buchi negli alberi della foresta. Lo stile della trama, a noi europei ricorda molto la fiaba dal titolo La Lepre e la Tartaruga, ma al contrario della fiaba di Esopo, quella narrata dal Griot afro-italiano ha una sorta di doppio finale, il primo è un lieto fine e il secondo finale, quello definitivo, è invece triste. Se nel finale della fiaba di Esopo si narra che alla fine la Tartaruga pur essendo lenta vince perché la Lepre presuntuosa, per sfoggio, se ne resta a dormire convinta che pur partendo più tardi, vincerà. E’ quindi una fiaba che educa a non essere troppo superbi, educa ad essere sportivi al punto che non conta solo vincere, ma partire insieme così da valorizzare lo sforzo dell’avversario e invita i più deboli a puntare su altre qualità personali che non siano la sola potenza e velocità, ma qualità come la perseveranza e la concentrazione sul proprio obiettivo che ci si è prefissati senza farsi distrarre dall’ozio e dall’eccessiva e tronfia sicurezza in se stessi.
La Cresta Rossa del Gallo è invece il totale smembramento di questo processo educativo secondo i nostri canoni abituali. Anche qui abbiamo una gara che non è basata sulla semplice corsa, ma sullo svolgere una mansione lavorativa: arare un campo da un certo punto di partenza a valle, fino a un punto di arrivo ai piedi di una montagna. Una funzione pratica e socialmente utile e non puramente agonistica.
Il concorrente fragile non è una Tartaruga (che i Mahì chiamerebbero Akpataghida), ma è un Picchio e tale Picchio non si confronta con un solo altro avversario, ma contro tutte le altre specie animali e non per puro conflitto fra forme di vita, ma perché Dadasegbo, una sorta di entità divina che ha autorevolezza e potere di comando, estende su tutti gli animali della Terra questa sua “decisione”.
Durante la gara a quanto pare è possibile farsi aiutare da un collaboratore esterno che per il Picchio è appunto il Gallo che usa il canto come carburante psicologico per spingere il Picchio ad arare il sentiero con sempre più lena. Così, galvanizzato dal canto del Gallo supera il Bufalo e l’Elefante. Ma addirittura nel finale, quando ormai la sua vittoria è netta, tutti gli altri animali che erano ormai consapevoli di aver perso, diventano sostenitori del Picchio e collaborano alla sua vittoria mettendosi a cantare insieme al Gallo.
Alla fine Attingli-Becchè vince e Dadasegbo è felice che il più piccolo abbia sconfitto i più grandi. Vi è la consegna del premio materiale, una corona, e la decisione altruistica di Attingli-Becchè di dividere in due la corona per cederne la metà a Cocolo-Assu (e con questo si spiega come mai il Gallo abbia la cresta rossa in testa: è la mezza corona che si è guadagnato come gesto di riconoscenza del Picchio). Ma ecco che dopo tutto questo bel lieto fine abbiamo un colpo di scena che vira il finale in una direzione opposta. Il Picchio viene colpito da una sventura che lo fa soffrire per il resto della sua vita. Non vi svelo il finale per non spoilerare in modo definitivo tutta la trama.
Nonostante tutto, “Ma come è possibile?”, ci verrebbe da chiedere. Che fiaba è una fiaba che finisce con un finale triste? Ebbene il fatto si riassume in una antica morale africana che ho messo a cappello dell’articolo. La fiaba educa non tanto all’agonismo sia pure onesto e solidale, ma educa a coltivare il sentimento della compassione. Quel sentimento che ci deve spingere a uscire dal nostro guscio e soffrire insieme a colui che pur meritando la felicità si trova colpito ingiustamente dalla sventura e dalla sofferenza.
Non possiamo che essere grati a Michel Koffi che sta svolgendo questo lavoro di mediazione interculturale permettendo di trarre arricchimento culturale ed emotivo dalla tradizione del suo paese, trasportando così nel nostro paese italiano … La Sua Africa.