Confesso di non aver letto il romanzo scritto da Yamamoto Shuguro da cui Minetarô Mochizuki ha tratto l’omonimo fumetto, trasponendo il racconto dall’epoca Edo (1600-1868) ai giorni nostri: a mia conoscenza il libro non è stato tradotto in alcuna lingua europea, e il giapponese non mi è familiare.
Non so dire, quindi, quanto della forza intrinseca al racconto sia già in nuce alla fonte. Ma ho letto e riletto interi capitoli, trattenendo le lacrime in quelli che precedono la fine. Perché, come scrive con umiltà Stephen King nella prefazione a Stagioni diverse: «è la storia, non colui che la racconta».
E la storia è presto detta: rampollo girovago e spensierato di una famiglia di carpentieri, alla morte improvvisa dei genitori Shigeji si ritrova a dover risollevare l’impresa di famiglia, bruciata nell’incendio che ha devastato il quartiere. Ritsu, compagna delle elementari e di recente orfana, cameriera al bar di fianco, si propone di occuparsi degli affari domestici a una sola condizione: quella di accogliere cinque bambini di un orfanotrofio distrutto egualmente nell’incendio.
Si tratta quindi di un romanzo di formazione; senonché Mochizuki, grazie alle possibilità che il fumetto offre in quanto medium, sposta – senza che ce ne accorgiamo – l’asse narrativo da Shigeji (di cui, comunque, seguiamo il passaggio all’età adulta) a Ritsu, vera protagonista in quanto motore indiretto di tutti i cambiamenti ai quali assistiamo, attraverso la messa in esergo del discorso interiore di Shigeji con quanto i suoi occhi vedono: Ritsu.
Il che non significa che vediamo Ritsu attraverso Shigeji: Ritsu agisce e si muove indipendentemente da Shigeji, sovente lo contrasta, lo contraddice – e in maniera inaspettata volano ceffoni, distribuiti a donne e bambini in egual misura, secondo codici di un tempo oggi fortunatamente condannati e che Mochizuki rende ancora più insopportabili grazie alla frammentazione grafica che impone in questi frangenti. Ma attraverso questo procedimento siamo partecipi dei cambiamenti che in maniera lieve scuotono Shigeji attraverso quanto Ritsu fa e non fa, dice e non dice.
Assume allora un significato preciso la scelta (anche estetica) compiuta da Mochizuki: coprire interamente il viso di Shigeji, i cui occhi ci sono noti solo all’inizio. Quegli occhi si chiudono alla fine del primo capitolo (la notte che segue il dramma), con un gesto di stanchezza che è anche chiusura a tutti gli ostacoli che il mondo gli metterà di traverso, per aprirsi letteralmente a noi solo alla fine – 884 tavole più tardi – quando tutti i nodi (anche quelli del cuore) si scioglieranno, rivelazione di una presa di coscienza che è ugualmente un invito rivolto al lettore ad effettuare un percorso a ritroso per rileggere e nuovamente “vedere” – e forse capire – il dipanarsi della storia.
Solo Mochizuki, che riconosce l’influenza di Ozu, poteva riuscire a compiere un tale ribaltamento (narrativo, psicologico e visivo) attraverso dettagli e inquadrature che, in perfetto stile giapponese – e basta leggere uno a caso dei romanzi di Banana Yoshimoto – fa un passo di lato verso oggetti, viste o gesti solo apparentemente anodini e invece consoni a meglio focalizzare ed esprimere il sentire interiore dei personaggi. E lo fa con quel suo stile peculiare, riconoscibile tra mille, solo apparentemente mutuato dalla grafica pubblicitaria, e che nello straniamento che offre opera dal profondo il cambio di prospettiva.
Un capolavoro – il fumetto – recentemente riedito in Francia da Le Lézard Noir in un lussuoso cofanetto che racchiude i quattro volumi in due più grandi e più pregiati (in Italia dei quattro volumi editi nel 2017 da J-Pop, etichetta manga di Edizioni BD, solo i primi due sono ancora disponibili, lasciando l’eventuale lettore a metà strada). Un capolavoro che invita a leggerne un altro – il romanzo – se mai verrà tradotto.
Cosa volere di più?