Quando si parla della produzione di Alan Moore, la (per altri) classica distinzione tra “opere maggiori” e “opere minori” ha ben poca ragione d’essere: per quanto infatti è indubbio che alcuni suoi lavori siano universalmente noti (chi ha detto Watchmen?), per altri è spesso da puntare l’indice principalmente sui cataloghi delle case editrici. Se ci concentriamo sul Moore autore di fumetti, infatti, è ovunque riconoscibile il suo stile, capace di coniugare erudizione e sintesi, ricerca del dettaglio e capacità espositiva (tanto per dirne alcune), e il suo talento affabulatorio, in qualsiasi salsa sia declinato, rimane possente e ipnotico.
Tutto questo per dire che le brevi storie dedicate al giovane Jack B. Quick “Boy inventor” – pubblicate sulla rivista antologica “America’s Best Comics” accanto a titoli come Promethea o Tom Strong – sono tutt’altro che facili divertissement. Jack non ha neanche dieci anni, e vive nel ridente (?) paesino di Queerwater Creek, in un’America rurale e “vagamente nostalgica” (come da indicazioni di Moore al disegnatore Kevin Nowlan). Jack gioca con la fisica come qualsiasi altro suo coetaneo giocherebbe a bruciare le formiche con una lente di ingrandimento, e le conseguenze sono quasi sempre apocalittiche in più di un senso, sia per la sua cittadina che per il resto del mondo.
Ciò che affascina è che la velocità delle storie – tutte non superiori alla decina di tavole – non va assolutamente a discapito della linearità della narrazione, e questo è un connubio che solo un fuoriclasse è in grado di ottenere.
La creazione di un sole (e delle caparbietà cosmologiche attorno ad esso orbitanti) in giardino, la costruzione di intelligenze artificiali a base di registratori di cassa e grammofoni, o ancora l’arresto dei fotoni perché sospettati di ubriachezza, sono solo alcuni degli spunti “out of the box” che per altri autori sarebbe oltremodo inverosimile anche solo immaginare. A questo va aggiunta la quantità ridicola di rimandi e citazioni che – al suo solito – l’autore è capace di infilare praticamente in ogni vignetta, oltre ovviamente al fatto che sviluppare storie di “stramba-fisica” richiede un minimo di conoscenza della fisica “ufficiale”, cosa che Moore dimostra bene o male di saper fare.
Il connubio velocità/linearità di cui sopra è del resto reso possibile anche grazie all’opera del citato Nowlan, veterano sia in casa Marvel che DC, il quale allieta il lettore con un tratto elegantemente realistico, ma capace al contempo di rendersi malleabile per assecondare le alzate di testa di Jack. L’uso del colore non indulge verso chissà quali sperimentazioni, ma risulta comunque efficace, e di certo l’opera intera si avvale del fatto che a rappresentarla graficamente sia un’unica mano.
Alan Moore riesce a far apparire semplice qualsiasi sforzo di sintesi e la lettura scorre fluida, accompagnata da un sorriso amaro nel pensare ad un’intera cittadina preda del genio (?) di un ragazzino che quasi Tesla spóstati. Lettura che è ovviamente consigliata, perché Moore non è solo distruzione del mito del supereroe, rivisitazione della mitologia lovecraftiana o accrocchi di super tizi: il bardo di Northampton ha cilindri che sbucano da altri cilindri, da cui tira fuori nidiate intere di conigli – e dell’incompenetrabilità dei corpi si fa un baffo.
L’opera cosiddetta minore brilla per stile e stravaganza, e la curiosità rimarrà inevasa per tutti quegli altri rimandi a storie mai scritte, ma che avrebbero reso Queerwater Creek un posto ancor più “interessante” in cui vivere.