Dopo averlo già premiato l’anno scorso, l’edizione 2022 di Lucca Comics and Games invita Chris Ware a una serie di incontri con il pubblico, complice la concomitante pubblicazione in Italia di “Building Stories” da parte di Coconino Press. Ad accompagnarlo sul palco Luca Valtorta, giornalista di Robinson, il settimanale culturale de La Repubblica, e Francesco Pacifico, scrittore, in questo caso coinvolto perché traduttore del volume presentato.
“Building stories”, una volta aperto e spiegato nei suoi 14 pezzi di cui è composto, occupa l’intero tavolo dove sono seduti gli ospiti. E’ un volume in scatola, anzi, una scatola piena di volumi. Scherzando, si può dire che sia il graphic novel a pezzi.
Chiedendo subito come è nata l’idea alla base di Building Stories, Chris Ware non può che sentirsi onorato di essere qui a parlarne.
E’ persino difficile per lui descriverlo, ma in breve quest’opera così ingombrante e difficile da portare è come una rappresentazione di un punto di inizio e un punto di fine della nostra vita per quel che riusciamo a percepire. Perché noi stessi e le nostre stesse vite, contrariamente all’immagine che ne abbiamo come di uno svolgimento continuo e sequenziale, non sono che percezioni delle connessioni e degli incontri con le altre persone. Percezioni e connessioni che – scherza – comprendono anche le orrende serie televisive che condividiamo.
La realizzazione di Building Stories è durata 10 anni di lavoro. Ci si chiede cos’altro faceva Ware durante tutto questo tempo e come è riuscito a gestirlo?
In realtà, risponde, non è stato difficile gestire questo tempo: alla fine dei conti, lui fa fumetti e per non annoiarsi trova piacevole, anzi consueto, dedicarsi contemporaneamente a più progetti, passando da uno all’altro.
Inoltre in quegli anni aveva una collaborazione stabile anche per il New Yorker, uno sviluppo di carriera per lui davvero inaspettato e fonte di una certa sicurezza.
Rivolgendosi al traduttore, Francesco Pacifico, gli si domanda come è stato tradurre il libro di Chris.
Presbiopia a parte dovuta alla ricchezza del dettaglio e ai fitti testi che adornano le pagine, lo scrittore conferma che non è stato difficile completare la traduzione perché Ware è uno scrittore consapevole e sa trasmettere molto bene ciò che vuol dire, tanto che non c’è stato bisogno di contattarlo per conferme o interpretazioni.
Lo stesso Ware apprezza molto che per la traduzione della sua opera se ne sia occupato uno scrittore, in quella che è un’influenza tra scrittura e fumetto.
Il tema scrittura in qualche modo attira altre domande e ci si concentra su una sequenza particolare di Building Stories che racconta del dilemma della scelta del libro da leggere durante un viaggio. E’, come prevedibile, una esperienza personale dell’autore che sempre quando viaggia in aereo si premura di avere un libro da leggere. Gli aerei, dice, sono per loro natura ottimi posti di lettura.
La lettura scelta per il viaggio in Italia è stato I Promessi Sposi, che Ware ritiene grandemente sottostimato dai recensori oltreoceano e che a suo parere, invece, restituisce una immagine vivida dei tempi che racconta, al pari di Čechov, Tolstoj, Nabokov, Joyce e Flaubert.
L’unico problema del libro per Ware è la copertina della nuova edizione che trova terribile. Su questo la sua sensibilità è particolarmente acuta, al punto che per tenere in casa edizioni particolarmente poco accattivanti, spesso si trova a rifoderare i libri. Il peggio però è quando ad essere inadeguato è l’adattamento: lamenta di aver più volte trovato come lo stesso libro possa essere completamente stravolto da un adattamento magari professionale ma che lo rende meno “vivo”. Questo, dice, gli è successo qualche volta prendendo in mano un’edizione recente di un libro che aveva già letto in una versione precedente.
L’immagine del posto secluso dove poter leggere probabilmente in maniera inevitabile porta la domanda sul suo lavoro in Pandemia. Ware scherza che per lui il modo di vivere e lavorare non è cambiato molto, semmai sono state le persone che gli sono vicine, moglie e figlia, a sperimentare la sua vita quotidiana. Anzi, è stato felice di avere in casa i propri familiari durante il giorno perché normalmente quando lavora è da solo chiuso tra le quattro mura mentre gli altri sono fuori. Seriamente però questo ha permesso di apprezzare una vicinanza prolungata e la sua conclusione è che vivere la Pandemia è stato come vivere “una” Fine del Mondo. Questo inteso come qualcosa che ti sconvolge e ti forza ad arrivare ad una nuova concezione di te, obbliga te, e tutti, a concentrarsi e riflettere su se stessi.
Di nuovo si torna alla vita professionale (forse il tema filosofico è troppo fresco) e ai tempi che impiega per il suo lavoro.
Ware scoppia quasi a ridere, dopo la traduzione, e subito risponde: “Capisco, ci metto troppo tempo!”.
Dopo l’applauso del pubblico, riprende la parola e chiarisce che in realtà la sua percezione è di essere persino troppo veloce quando è al tavolo da disegno.
Da una parte il suo concetto di fumetto è di un medium estremamente “denso” che richiede un sacco di tempo affinché un singolo elaborato sia veramente “pronto”.
Dall’altra, ma qui è difficile dire se non sia falsa modestia, un pizzico di compiaciuta ritrosia, la sua naturale ironia o tutto quanto assieme, Ware afferma che gli par d’essere persino arrogante a far uscire un libro ogni due anni circa.
E questo porta l’autore a rigirare la domanda allo scrittore e traduttore Francesco Pacifico, chiedendo a lui quali siano i suoi ritmi. Pacifico dà una risposta per certi versi controintuitiva: all’inizio di un romanzo le ore impiegate a lavorarci sopra paiono poche, tre ore al giorno dice lo scrittore. Poi, mano a mano che si arriva verso la consegna le ore aumentano ed alla fine si fanno le notti. La fase di editing, di ricerca è facile e scorrevole, ma tirare le somme alla fine non lo è per niente.
Chris Ware sembra concordare ed aggiunge che i fumettisti capiscono il senso di solitudine che dà lavorare su un’opera e la difficoltà a volte di avere la percezione del proprio lavoro. Di darsi dei punti di riferimento. Lui, per ovviare a questa mancanza di riferimenti si è creato delle abitudini e, ad esempio, prima di mettersi a lavorare prepara la lavastoviglie.
Sono gesti di una vita quotidiana vissuta, e che poi viene raccontata. Secondo Ware tutte le persone vivono la loro vita e vogliono raccontarla.
La domanda successiva è il suo rapporto con i Comics. Nonostante (o forse proprio per) la sua caratura “autoriale”, Ware ammette di averli adorati da ragazzo, ne leggeva tanti e voleva diventare a sua volta un supereroe, credeva che sarebbe successo.
Da qui parte una riflessione sul valore di queste figure eroiche e di come si perpetuino. Ci sono i conflitti, ci sono le sofferenze e queste figure ci sono in mezzo e spesso ne sono parte. Sono parte di qualcosa di cui in America (NdR.: Ware fa riferimento alla sua terra, ma è impossibile non vedere un discorso generale) non si vorrebbe parlare, ma alla fine se ne parla e da questo emergono figure luminose che poi diventano parte della cultura e mutano con essa.
L’altro riferimento è l’epopea Western, dapprima la percezione dei cowboy e dei cavalleggeri come eroi opposti a selvaggi infidi e violenti, poi il ribaltamento operato tramite film ed altre opere che proponevano altri eroi.
Ware a questo punto ricorda una lettura recente, un trattato di antropologia che ritiene la percezione della civiltà come un affare tra stati, tra collettività di persone, ma che in realtà è un fluire di eventi animati da persone che fanno cose e così facendo influenzano altre persone in una contaminazione continua.
Parlando di influenza la domanda successiva è sulla sua opera che si mostra come un continuo tentativo di rompere con quella che è l’editoria “normale” e creare elementi che sono disorganici tra di loro. Senza un filo comune.
Per Ware il filo comune, il filo rosso, è la nostalgia. La nostalgia per formati che non trova più, la nostalgia per forme di narrazione diverse che lui ritrova nei ricordi di sé con sua nonna.
Un partecipante gli ricorda che la sua narrazione, intrecciata con la sua ricerca grafica, coniuga aspetti apparentemente contraddittori quali il grande quadro d’insieme e il dettaglio più minuto. Eppure tutto si tiene. Come riesce a farlo?
La risposta è che questo sta nella sua concezione del mondo stesso e di come lo percepiamo: ad esempio del 1968 abbiamo pochissimi flash eppure tutti ci pensiamo e ne abbiamo una immagine precisa e coerente, la nostra percezione è un affollarsi di tanti momenti specifici in grandi passaggi di collegamento.
Chiaramente parlando di particolari ed insieme, e della capacità unica dell’autore di farli camminare fianco a fianco, la domanda su quale sia il valore della tipografia per lui, anche pensando a Building Stories che troneggia sul tavolo dei conferenzieri, è inevitabile.
Fondamentale.
Chris Ware non usa mezzi termini: la tipografia per lui è fondamentale all’esistenza del fumetto. Il fumetto e le sue componenti non possono esistere senza la tipografia e, a questo punto, è il moderatore a lanciare l’ipotesi che magari è stato questo a farlo passare da Mondadori, grande casa editrice ma ancora incerta nel trattare il fumetto e l’opera grafica, alla più piccola e dedita Coconino Press. Ware non conferma né smentisce, si dice lusingato dall’attenzione che gli editori italiani gli hanno concesso.
La conferenza si avvia alla conclusione e c’è tempo per un’ultima domanda e l’oggetto sono i personaggi femminili, visto che il punto di vista – difficile dire “la protagonista” in un’opera così anomala – di Building Stories è una donna. Come si rapporta l’uomo Chris Ware alla narrazione dell’altro genere.
Per Ware narrare da un punto di vista femminile non è così difficile come si ritiene. Innanzitutto, dice, andando avanti con l’età la sua percezione è che le differenze si assottiglino e le cose in comune aumentino. Per cui nel porsi in quel punto di vista lui cerca di non allontanarsi troppo dalla sua esperienza quotidiana.
E poi cerca di capire e di comprendere il punto di vista non suo. Sa che sua moglie lo legge, sa che lo leggeranno le amiche di sua moglie, cerca di capire e comprendere.
Comprendersi, dice Ware, è il suo contributo a rendere il mondo un po’ migliore.
La presenza di un autore così intelligente e di successo come Chris Ware è anche occasione di renderlo partecipe alla Walk of Fame, la prestigiosa collezione di impronte delle mani dei più grandi artisti del fumetto, dell’illustrazione, del gioco e del cinema che da anni è una tradizione per Lucca Comics and Games.
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