In questi ultimi mesi, probabilmente a causa di un attacco nostalgico, ho voluto riavvicinarmi al fumetto Disney e per l’occasione ho optato per una delle opere più acclamate e famose di sempre: La Saga di Paperon de’ Paperoni di Don Rosa nell’edizione Panini.
Non ho alcuna velleità informativa o anche solo minimamente divulgativa sull’opera: in rete se ne trovano già di soddisfacenti.
Segnalo alcune di esse consigliandone la lettura così da poter meglio inquadrare anche il mio ragionamento successivo: qui l’articolo di Fumettologica, qui quello dello Spazio Bianco e infine qui quello di StayNerd.
Come tutte le grandi opere, e non v’è alcun dubbio che questa lo sia, il lavoro di Don Rosa offre molteplici argomenti di discussione. Potrei soffermarmi sulla trama, sui disegni, sulla sceneggiatura, ma quello di cui mi preme scrivere in questa occasione è qualcosa di più specifico e concettuale che riguarda la figura di Paperon de’ Paperoni.
Nel suo I linguaggi del Fumetto Daniele Barbieri mostra quanto ci sia in comune tra il fumetto e il teatro ed è da quest’ultimo che vorrei partire: fin dal teatro greco, si è trovata una convenienza nel far recitare gli attori in maschera. Questo tanto per motivi puramente tecnici: permetteva l’amplificazione della voce; quanto per motivi artistici: fungeva da abito di scena e permetteva il riconoscimento.
Se guardiamo poi all’Europa e ancora di più all’Italia, la maschera vive il suo momento di popolarità con la commedia dell’arte nel ‘500: è in questo periodo che nascono i vari Arlecchino, Pantalone, Brighella e soprattutto si consolida la concezione della maschera come astrazione assoluta, archetipica.
Il Paperon de’ Paperoni da cui Don Rosa prende le mosse è quello dell’uomo dei paperi: Carl Barks.
Si tratta di uno dei personaggi più prossimi ad una maschera della commedia dell’arte di tutto il pantheon Disneyano: è ricco e lo è per antonomasia, è scorbutico e lo è per eccellenza, è avventuroso e lo è eccezionalmente.
È un personaggio granitico anche nel tempo: ogni volta che incontriamo il Paperone di Barks incontriamo lo stesso Paperone. Si muove all’interno di un presente infinitamente dilatato, senza passato e senza futuro.
La saga che Don Rosa costruisce è nelle intenzioni una celebrazione della creatura di Barks ma è anche incontrovertibilmente la sua negazione. Come già evidenziato la maschera è tale in quanto non ha rapporto con il tempo. Narrare il passato di Paperone equivale ad inserirlo in un flusso temporale eliminando una delle caratteristiche fondamentali della maschera, eliminando di fatto la maschera. Il punto non risiede tanto nella narrazione delle vicende pregresse del protagonista, quanto piuttosto nel mostrarne l’evoluzione intaccandone alla base la sua immutabilità.
Si tratta di un’operazione svolta magistralmente da Don Rosa, assistiamo di capitolo in capitolo ad una crescita psicologica del personaggio credibile e accurata.
Ogni evento: dalla più incredibile delle situazioni, al più inutile dei dialoghi ne modifica percepibilmente il carattere e la psicologia: lo trasforma ed è una trasformazione continua. Ad ogni vignetta siamo alle prese con un Paperone diverso, cambiato.
Si tratta di uno degli aspetti più mirabili dell’opera di Don Rosa, un esempio narrativo esemplare, ma anche un’operazione assolutamente antitetica con il lavoro di Barks. Se stabilisco che Paperone è cresciuto, che il suo carattere passato era diverso da quello attuale; se lo rappresento mutabile nel passato, implicitamente lo dichiaro mutabile nel futuro. Il Paperone de Il signore del Mississippi è molto meno sprovveduto di quello già presente nelle Terre Maledette; prima e dopo il Transvaal il nostro papero acquisisce coraggio e abilità fisiche mai possedute prima: se la premessa è questa, devo però presupporre che anche ogni avventura futura, al suo termine, non mi consegnerà più lo stesso vecchio miliardario.
Questa decostruzione della maschera non è limitata al solo piano caratteriale: investe anche l’aspetto fisico, fondamentale se pensiamo alla sua paternità teatrale.
La maschera del teatro fissa il personaggio anche esteticamente, limita la riconoscibilità dell’attore a favore della propria, che non muta, mai. Tutto il mondo Disney risponde a questa caratteristica, i personaggi non sono riconoscibili solo per caratteristiche emotive ma anche per connotazione fisica, per aspetto, per abbigliamento.
Il Paperone di Barks mantiene pedissequamente le sue caratteristiche estetiche in ogni singola storia. Il Paperone di Don Rosa non solo cambia abbigliamento spesso, ma addirittura cresce; la sua riconoscibilità non è più garantita nemmeno dal suo corpo.
La recitazione degli animali antropomorfi Disney è vicina al teatro in quanto caricaturale, basata sull’esagerazione fisica ed espressiva. Far crescere un personaggio, mostrarlo nella sua evoluzione corporale porta a resettarne di volta in volta la sua “recitazione” reinventandola di continuo.
È noto che la reazione di Carl Barks a La Saga di Paperon de’ Paperoni non sia stata esattamente quella attesa, soprattutto nei confronti di un’opera dalla natura fortemente tributaria.
In una famosa intervista l’anziano fumettista non lesinò pareri al limite dello sprezzante nei confronti del collega. Derubricare questi commenti come il parere di un grande autore del passato troppo legato ai suoi schemi classici per capire la grandezza e l’importanza di un’opera moderna è fin troppo semplicistico.
Nelle parole e nel giudizio di Barks è espressa, forse sottotraccia, una tensione ben più profonda.
Barks forse più di altri aveva capito l’operazione di Don Rosa, che però non si pone né in continuazione né tanto meno in espansione rispetto alla sua quanto piuttosto in contrapposizione.
Il divario tra i due è concettuale, non meramente su Paperon de’ Paperoni piuttosto su quello che esso rappresenta, sulla sua natura più profonda di personaggio dei fumetti.