Incuriosito dalla Short Review del nostro Pasquale, incappo in questa miniserie pubblicata alcuni anni fa e, dopo un bel po’ di tempo, torno a una lettura supereroistica; vi torno, e con sorpresa trovo una splendida storia.
I personaggi con “carriere” ultradecennali sul groppone – in questo caso siamo intorno ai sessant’anni – possiedono alcune caratteristiche salienti: hanno le spalle larghe, perché nel tempo hanno inevitabilmente subìto innumerevoli traversie, sia editoriali che “biografiche” e ne hanno viste di tutti i colori; sono estremamente duttili, perché nei decenni hanno inevitabilmente subìto innumerevoli mutamenti, sono stati interpretati da innumerevoli autori che hanno fatto loro fare la qualunque e li hanno coinvolti in selvagge escalation di drammi, lutti, ecatombi, catastrofi; sono maturi, sono cioè utilizzabili in modi e per storie che personaggi esordienti o quasi non possono “vivere”.
Di riletture postmoderne, di personaggi Marvel o altri, il Fumettoverso è ormai gonfio come un Pantagruel abbuffatosi dopo una settimana di digiuno; ma una volta di più gli autori de La storia della mia vita (di)mostrano che la discriminante è data da come si realizza qualcosa, e non da quel qualcosa. Isaac Asimov diceva che le idee stanno un centesimo alla dozzina, e il sottinteso era appunto che la parte difficile era poi metterle nero su bianco, che la differenza sta nella tecnica compositiva con la quale le idee vengono smontate e rimontate perché coinvolgano le emozioni e l’intelligenza del lettore.
I sessant’anni di vita editoriale di Spider-Man diventano così sessant’anni di vita biologica del Tessiragnatele e del suo alter-ego umano Peter Parker: Chip Zdarsky lo fa crescere e invecchiare con il trascorrere degli anni e degli eventi. Una rilettura che per personaggi così longevi e variegati a un certo punto diventa ovvia, obbligatoria perfino, disancorando il personaggio dal suo eterno presente e restituendolo al flusso della storia, nel quale era nato ma dal quale era stato estrapolato con il trascorrere del tempo e il successo raggiunto. Operazioni che si risolvono quasi sempre in esercizi di stile o in leziose marchette a uso dei nerd. Zdarsky si smarca invece con naturalezza da entrambi i fenomeni e costruisce una storia asciutta, essenziale, dove certamente abbondano i drammi – umani, esistenziali, storici, di fantasia – gestiti tuttavia con sobrietà e intenso pathos al contempo. Asciutta per l’inevitabile brevità con cui condensa la lunga storia editoriale del personaggio e quella biologica di PP, e per la narrazione senza fronzoli nonostante la sua drammaticità; essenziale per la mirabile sintesi con cui viene rappresentata la storia del personaggio, tralasciando i dettagli secondari o irrilevanti (anche se magari evocativi e di fortissimo impatto come le origini) per concentrarsi sugli snodi e gli eventi fondanti e fondamentali e sui personaggi – gli individui realmente caratterizzanti la vita di Peter Parker/Spider-Man. Attorno a Spidey l’autore muove un universo storico e umano coerente: un mondo che muta tenendo conto della “variabile supereroi” in esso; personaggi che crescono, invecchiano, si ammalano e muoiono coerentemente al passare del tempo, e lo fanno con coerenza psicologica ed esistenziale.
In questo racconto in sei parti, come i decenni della vita di Peter, Spider-Man è come non mai il simbolo della responsabilità e dei sacrifici, delle rinunce, del dolore – delle aspre difficoltà – che si accompagnano all’assunzione delle proprie responsabilità. È una scelta dovuta, caratterizzante e intensa alla quale si attaglia un Peter Parker più sofferto e sofferente dell’abituale e che solo occasionalmente si abbandona a una maggiore leggerezza. Troviamo un Peter Parker che definisce e si definisce nel rapporto con i familiari, con i nemici, con i suoi pari: Zdarsky elabora con finezza i rapporti realistici con Mary Jane, zia May, il fantasma dello zio; esplora in modo credibile e accurato le relazioni malsane, morbose financo con i due Osborne, con Kraven, con Miles Warren, con Otto Octavius; infine struttura una visione caleidoscopica della “personalità del supereroe” mettendo questo suo Spider-Man a continuo confronto con le personalità polarizzanti di un Capitan America che vive e affronta i dubbi e le contraddizioni del suo ruolo, ma sempre con il cuore dalla parte giusta, e un grifagno Iron Man fasciocapitalista che come non mai incarna l’anima istituzionale del supereroe, la funzione di controllo e salvaguardia dello Status Quo atlantico. A fungere da monito e pericolo da evitare, ma anche da faro e da modello cui rifarsi, vi è un Reed Richards precocemente piegato dalla vita ma che non abdica alle sue responsabilità.
Mark Bagley fornisce alla storia una prova grafica perfetta, traducendo in immagini asciutte ed essenziali, ma ricche di intensità drammatica, un racconto esaltato proprio da tali caratteristiche. È il suo pennello a mostrare visivamente il fluire del tempo, l’invecchiamento dei personaggi, a veicolarne al lettore le emozioni sottostanti e conseguenti, fino all’intenso epilogo di un Peter settantaduenne che compie il circolo della sua vita.
Una storia che non è una rivisitazione ultimate ma è molto di più di una siffatta rivisitazione. Una storia che non è una banale rilettura postmodernista del personaggio ma è molto più di una rilettura. Una storia che non è un patetico abbandonarsi alla nostalgia ma una poderosa elaborazione del passato. Una storia, infine, che, nel ricapitolare l’universo di Spider-Man fornisce una lettura autentica di tutto l’universo marvelliano nei suoi costituenti primitivi, fondamentali. Senza gli inutili orpelli di sessant’anni di storie, di capriole narrative ed editoriali, che Zdarsky non rinnega e anzi inserisce nella narrazione depurandoli degli elementi inessenziali. Il tutto in sei brevi capitoli, con una stringatezza e, di nuovo, essenzialità che non può non lasciare ammirati.