Chi troppo vuole, troppo ottiene (e non è detto che sia un bene)

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Breve analisi del primo numero di Odessa

Davide Rigamonti trasforma l’affascinante cittadina ucraina affacciata sul Mar Nero nel teatro dello stravolgimento spazio-temporale fulcro dell’omonima nuova serie Bonelli.

Le premesse attraversano in lungo e in largo i tòpoi della fantascienza classica – e forse, ancor più, di quella contemporanea – inserendosi perfettamente nella tradizione avventuriera bonelliana.

Oltre questo, purtroppo, poco altro, o meglio: talmente troppa roba da lasciare alla fine il lettore con davvero ben poco in mano. La narrazione si muove abbondando in citazioni e spiegazioni che tolgono qualsiasi accenno di pathos ad ambientazione, personaggi, e storyline. Ciò che avrebbe dovuto disvelarsi con lentezza viene servito nell’arco di una manciata di vignette (neanche di pagine!), così che il resto della storia si trascina in un manierismo che sa di poco, e quel poco già a partire dal trio di protagonisti non riesce a liberarsi da un diffuso senso di dejà-vu che rimanda, almeno per i lettori bonelliani più preparati, a Nathan Never e compari, o alla cricca di Harlan Draka.

È pur vero che la serie appare pensata e, soprattutto, disegnata, per un pubblico adolescente (a ben sperare), per cui certi eroismi o ostentazioni di pathos potrebbero essere giustificate, ma dialoghi così piatti, avvenimenti tanto telefonati e personaggi così stereotipati non lasciano presagire nulla di buono all’orizzonte. A fine albo, se pure l’esperienza è stata piacevole, la veloce lettura necessaria ad arrivare a pagina 98 lascia poco interesse a proseguire: è così tanto prevedibile quanto accadrà nei prossimi albi, e così poco interessanti sono i personaggi, che non vi è alcuna solida motivazione ad alimentare la necessaria curiosità di scoprirlo.

Tutto ciò è ovviamente un peccato, perchè le premesse sci-fi che ricordano tanto Under the Dome o Fringe (giusto per citare due fonti abbastanza evidenti), la penna di Rigamonti già apprezzata su Nathan Never, oltre ad un notevole hype suscitato dalla Bonelli avevano lasciato ben sperare. La bolla si è però in realtà già per buona parte sgonfiata con il cosiddetto “numero 0”, che ha subito reso chiara la cifra distintiva della serie – nell’ambito della quale spicca l’uso del colore, tanto inutile quanto dannoso, forse ancora peggio di quanto si sia potuto fare con Mercurio Loi. Ovviamente, tanto per pensarla male, dal colore all’aumento di prezzo di copertina il passo è breve, e con ogni probabilità chi ha già un congruo vissuto di cultura fumettistica e non, ci penserà bene prima di avventurarsi con l’acquisto dei numeri successivi al primo. Come detto, ai giovani invece potrà piacere, ed è infatti a loro che è anche mirato quello slogan di “science fantasy” che allude, nelle parole di Rod Serling, alla possibilità di rendere l’impossibile plausibile, nel senso di giustapporre una sfumatura di realismo alle cose che semplicemente non possono accadere nel mondo reale in alcuna circostanza.

Così facendo, si finisce per avvicinare la serie Bonelli più alla produzione di Elisabetta Gnone che non a quella di Brian K. Vaughan, e la bontà del prodotto si liquefa nella depressione del “poco interessante”.

Oscar Tamburis

Da sempre convinto sostenitore della massima mysteriana "L'importante non è sapere le cose, ma fare finta di averle sempre sapute"

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