Warren Ellis con Injection ci (ri)presenta un futuro già immaginato e già visto; eppure, giocando con la storia, con i personaggi e con le ambizioni umane, riesce a raccontarci un’avventura tanto complessa e affascinante da sembrarci quasi nuova.
In sintesi: cinque persone con capacità fuori dal comune – una fisica, un analista strategico, una hacker, un investigatore, un cunning-man – vengono assoldate da un ente governativo (più o meno) segreto per immaginare nuovi scenari di impulso al progresso scientifico e tecnologico, impantanatosi in uno stallo ormai da lungo tempo. Il risultato partorito da questo peculiare think tank è una Intelligenza Artificiale su base non-biologica che assomma in sé le conoscenze e le esperienze dei cinque, e che viene inoculata (injected, da cui il titolo) nella rete. Libera come un predatore nella giungla, figlia unigenita penta-generata, questa AI “stregata” cresce inglobando in pochi minuti le infinite e complesse sfumature del mondo che ci (e la) circonda, per cui decide di esplorare cosa c’è oltre…
Così facendo Ellis, partendo da una premessa che potrebbe essere tranquillamente la sinossi di Terminator o di Person of Interest (o ancora, metafora dell’eterno Prometeo), da un lato va a risvegliare archetipi e suggestioni sopite nella nostra tradizione; dall’altro reinterpreta i concetti altrettanto radicati di passione e ambizione, che sono propri dell’uomo e quindi rappresentano il traguardo supremo da raggiungere per un essere di nuova concezione che – proprio in quanto Intelligenza (Artficiale, of course) – ha nel suo “codice genetico” quello di imitare al meglio ciò che caratterizza e contraddistingue l’essenza dell’homo sapiens.
Il risultato è una storia di science fiction atipica, che parla sì del nostro futuro, ma in realtà esplora le ragioni sul come e perché lo vogliamo realizzare (o finiremo per realizzarlo). In questo l’inoculazione (il nomignolo dell’AI) non è altro che l’ennesimo specchio del vero predatore della giungla che è l’uomo; non a caso, le azioni che essa compie rivelano un sadico compiacimento nell’aver appreso la lezione impartitagli dai genitori, e come bambinetta non vuole altro che essere da loro riconosciuta e apprezzata nelle sue azioni, pur sfidandone al contempo l’autorità e macerandosi nella curiosità di scoprire cosa c’è un passo più in là, un mondo più in là, una dimensione più in là.
Il tutto viene raccontato con il ritmo tipico e particolare dell’autore britannico. I dialoghi sono ridotti all’osso ma carichi di black humor, sublimazione di un lavoro di cesellatura e rimaneggiamenti apertamente volto a provocare uno spaesamento del lettore che si trova spesso in difetto, sia nei confronti delle informazioni sia in confronto ai personaggi.
Il comparto grafico è assolutamente all’altezza della narrazione, potendo vantare nomi come Declan Shalvey e Jordie Bellaire, che già sfoggiano nel curriculum passate collaborazioni con Warren Ellis. Le loro tavole pulite e funzionali riescono a mettere ordine nella follia che talvolta viene raccontata. Il tratto grafico presenta uno stile essenziale, che i colori arricchiscono senza appesantire, infondendo respiro nella scansione della tavola, quasi a suggerire in certi casi lenti movimenti di camera che abbracciano la scena con piani totali. Questa generale tendenza assume una deriva potente durante le scene d’azione le quali, pur essendo tendenzialmente statiche (non c’è praticamente presenza di linee cinetiche), suggeriscono comunque molto bene l’idea di dinamismo – si veda ad es. la sequenza di lotta tra Simeon e il terrorista Zangief-like nel primo volume: è come guardare tanti ralenti alla Snyder, ma senza il fastidio dell’alternanza con la ripresa veloce!
E se è l’uomo il primo a voler sollevare il famoso velo di Maya, perché non dovrebbe volerlo fare un simulacro dei meccanismi del suo intelletto?