Negli ultimi anni, se non decenni, sembra diventato impossibile adattare o trasporre in un secondo e diverso medium un’opera nata per un primo, se non tradendone l’intento originario e le caratteristiche fondanti, stravolgendone i personaggi, pasticciandone le storie, edulcorandone i significati più profondi: svilendo e avvilendo, in parole povere, gli originarii capolavori saccheggiati alla bisogna; o anche solo lavori a ogni modo dignitosi e con una propria identità precisa e definita. Né va meglio con sequel o remake: con il nuovo millennio non è rimasto nulla dello spirito primitivo di Star Trek, sostanzialmente sempre più ripiegata sul continuo ripensamento e rimasticamento del passato invece che orientata ad ampliare di continuo le frontiere concettuali e narrative del futuro umano come fecero le prime tre serie televisive (e in parte la quarta); così come la serie a fumetti del giovane Tex Willer – che avrebbe dovuto narrare con piglio rinnovato le avventure giovanili del più importante e longevo personaggio italiano dei comics – ha finito per trasformare la figura, a un tempo granitica e umanissima del ranger bonelliano (quel mix tutto peculiare e distintivo che ha reso Tex un personaggio assolutamente unico e speciale), in uno sbruffoncello un po’ coatto – un po’ maranza, come viene da dire seguendo la moda più recente. Sono solo due esempi, tra gli innumerevoli possibili, uno planetario e globale e uno specifico del nostro paese, di pezzi del patrimonio culturale popolare trasformati in repliche manierate e senz’anima delle opere di partenza: spremitura del limone fino all’ultima stilla di succo.
Se questo è quanto per quel che riguarda sequel (o prequel) e remake vari, non va mediamente molto meglio quando si tratta di trasposizioni da un medium a un altro, seppure vi siano lodevoli – e neppure troppo infrequenti – eccezioni: per fare giusto un paio di esempi, le serie televisive dedicate a Poirot e Miss Marple e interpretate rispettivamente da David Suchet e Joan Hickson mostrano (quasi sempre) un equilibrio perfetto tra rispetto dello spirito delle storie e dei personaggi e i cambiamenti davvero necessari per tradurre delle opere – sì seriali, ma pur sempre scandite dai ritmi della letteratura – all’interno della tempistica e delle necessità inesorabili del casting del formato televisivo. È pur vero che non si tratta di esempi troppo recenti, ma è non meno vero che risale invece appena allo scorso anno l’affascinante miniserie tv Ripley, tratta da Il talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith (e per tornare a sequel e simili, la serie TV di Cobra Kai ha mostrato che è possibile dare dei séguiti di qualità e pienamente sensati a opere amatissime se si hanno le idee chiare, il rispetto di quelle opere originarie e la capacità di tradurre entrambe le cose in progetti ben strutturati e realizzati).
Tuttavia, a fronte di queste “lodevoli eccezioni”, è arduo sottrarsi alla percezione che i casi contrari siano molti di più. Per tornare in ambito “christiano”, credo che ogni vero appassionato di Dame Agatha vorrebbe far vigoroso uso di un nodoso tortore sulla persona di Kenneth Branagh a causa dei suoi film su Poirot. La bravura di Branagh non è in discussione, e neppure che le pellicole in questione possano essere cinematograficamente valide: semplicemente non c’entrano assolutamente NULLA con l’investigatore belga protagonista di decine di romanzi e racconti della scrittrice di Torquay.
E così, credo che gli appassionati italiani di fumetti piangano ancora per quelle scialbe parodie che vennero fatte passare per le serie animate di Martin Mystère, Rat-Man e Diabolik, e che altro non furono che la riduzione a dose omeopatica dei loro caratteri fumettistici nell’acqua televisiva, o – restando a Diabolik – per l’occasione largamente mancata con la trilogia manettiana sul Re del Terrore, sostanzialmente corretta nel rispetto del personaggio e del suo mondo narrativo, ma totalmente fallimentare nel riuscire a traslare quel personaggio e quel mondo fumettistico in una narrazione filmica fluida e funzionante (per tacere del 90% della recitazione). Confesso, d’altronde, di non aver (ancora?) trovato il coraggio di proseguire la visione dell’Eternauta targato Netflix oltre il secondo episodio: l’abuso oltre modo di cambiamenti all’opera originale anche quando – o forse soprattutto – non ve n’è necessità alcuna legata al medium di approdo – quello televisivo, in questo caso – è forse perfino più fastidioso della voltura in innocui racconti di storie che furono grida d’allarme, moniti accorati, atti di ribellione o manifesti politici militanti: entro certi limiti siamo preparati a che, si spera in modi ancora accettabili, opere “scomode” vengano rese più potabili per un pubblico più ampio, di bocca buona e in larga misura sufficientemente torpido di coscienza, ma viene davvero da chiedersi per quale balzano motivo una mente bacata abbia deciso di cambiare da Martita a Clara il nome della figlia di Juan Salvo: un particolare talmente futile e secondario da essere la perfetta spia di un atteggiamento preciso verso l’opera originale. Forse io sono ipersensibile riguardo a quello che è uno dei maggiori capolavori del fumetto e della fantascienza del ‘900 – della narrativa tout court, in verità – ma forse anche no: è semplicemente che lo scempio gratuito è un malcostume ancora più invasivo dello scempio attentamente mirato.
Altrettanto ipersensibile lo sono riguardo a Isaac Asimov. Per quanto molta acqua sia passata sotto i ponti da quando il Buon Dottore mi iniziò alla fantascienza, e per quanto oggi apprezzi maggiormente modelli fantascientifici piuttosto lontani da quello asimoviano, il mio debito verso il corpus seminale dei lavori di colui che resta uno dei veri padri della science-fiction è immenso, e chiunque si approcci a quei romanzi e racconti come semplici “pezzi di immaginario” con i quali farci su un po’ di grana si merita nel mio cuore il doppio del trattamento che vorrei riservare a Branagh. Così, se per amore verso quel meraviglioso attore che fu Robin Williams mi limito a stendere un velo pietoso sulla patetica e melenseggiante trasposizione filmica de L’uomo bicentenario, ben diversamente reagisco al ricordo della macelleria che è stata fatta dalla serie di Apple TV su una delle più affascinanti e complesse creazioni della fantascienza: il ciclo di Fondazione. L’opera è stata completamente sovvertita nel suo significato profondo, nella visione illuministica, quasi deterministica di Asimov, che tuttavia intuì non di meno la funzione essenziale, beffarda perfino, del cieco fato come un elemento fondamentale e fondante degli eventi storici: il team “creativo” della serie televisiva ha eradicato la filosofia alla base di Fondazione ripopolandola di personaggi disturbati, superomistici, misticheggianti. L’esatto contrario della creazione e del pensiero di Ike. A ciascuno i suoi totem, insomma – ma del resto così come l’Eternauta lo è (non solo) per il fumetto, del pari Asimov _È_ un totem autentico e imprescindibile (non solo) della science-fiction.
È stato perciò con sorpresa non minore della gioia che mi sono imbattuto, per puro caso, in I, Robot di Raúl Cuadrado. Opera prima, edita nel 2020, di questo autore spagnolo che mi era del tutto sconosciuto, scritta però originariamente in inglese e che non mi risulta tradotta in italiano, è un breve volume che presenta la trasposizione a fumetti di tre dei racconti di uno dei libri più noti – e belli – di Asimov: I, Robot appunto (in italiano Io, Robot).
Le tre storie fumettate da Cuadrado sono: Robbie, il primo racconto pubblicato di quello che sarà il ciclo robotico, indubbiamente un’opera ancora ingenua ma che al valore fondante unisce già l’impronta inconfondibile di Asimov, quella sottile capacità, a onta del mito contrario spesso da lui stesso alimentato, di far affiorare le posture psicologiche umane con pochi e precisi tratti, la sua capacità mirabile di sintesi e chiarezza espositiva; Circolo vizioso, probabilmente il migliore dei racconti del sub-ciclo di Powell & Donovan, uno dei più riusciti giochi a incastro tra le pieghe ambigue della logica altrimenti inesorabile delle “Tre leggi della robotica”, l’immortale marchio di fabbrica della narrativa asimoviana; infine Bugiardo!, il più raffinato di quei racconti nei quali Isaac si divertiva a sbalzare con pochi tratti decisi l’anima e i comportamenti umani (sempre a onta della leggenda da lui stesso pompata), e nel quale si è ferocemente divertito a mettere interamente a nudo la natura umana di Susan Calvin, il suo personaggio più riuscito e completo, costruito a tutto tondo sulle debolezze e i punti di forza insiti nel nostro essere uomini e donne.
Dal punto di vista testuale e narrativo, la fedeltà di Cuadrado ad Asimov è quasi imbarazzante tanto il calco appare pedissequo, ma la bellezza di una trasposizione fedele non è data ovviamente dalla banale fedeltà letterale, che sarebbe a ben vedere una ben misera e rozza realizzazione. Il talento dell’artista spagnolo è stato esattamente di saper adattare nel modo migliore e più idoneo al medium fumetto un materiale narrativo pensato per il racconto letterario – e averlo fatto preservando praticamente in toto la magia narrativa di Asimov nel mentre creava un lavoro che è altrettanto suo e altrettanto originale. Cuadrado ha dato vita ai personaggi e racconti di Asimov con uno stile grafico sorprendente e, sorprendentemente, efficacissimo nel visualizzarli a lettori che debbono averli immaginati in modo ben diverso. Dalla scelta della colorazione in bicromia, in toni caldi e a un tempo blasé che donano un perfetto aspetto retrò all’atmosfera dei racconti esaltandone il sapore nostalgico, alla soluzione di costruire le tavole in orizzontale, quasi a richiamare le strip fumettistiche dei quotidiani americani del tempo in cui i racconti furono scritti, Cuadrado fa della scenografia del suo fumetto l’elemento fondamentale del successo artistico di questo adattamento. Altrettanto vincente il tratto morbido, quasi umoristico del suo disegno, che paradossalmente non smorza e addirittura esalta le parti più drammatiche dei racconti – in particolare il furioso crescendo finale di Bugiardo!, che si legge con il fiato sospeso pur conoscendolo praticamente a memoria (forse non così paradossalmente: il miglior modo di conservare il soffuso umorismo ebraico caratteristico di tutta la narrativa asimoviana è stato di affidarlo al disegno, lasciando l’elemento drammatico al nudo testo).
È bello trovare ancora qualcosa in grado di sorprenderci, e ancora più soddisfacente quando arriva per caso e da qualcosa che ci è così tanto nota.