L’interesse potenziale è sempre desto quando si tratta di una storia che chiama in causa la Chiesa Cattolica – e, più nello specifico, le dinamiche interne alle mura del Vaticano – soprattutto se questa viene posta di fronte alla portata temporale e sovrannaturale dei princìpi e degli elementi su cui fonda la sua storia bimillenaria.
Stéphane Betbeder, acclamato autore di BD, mette a tale proposito in scena una vicenda alquanto intricata, nella quale una serie non meglio identificata di “segni” sembra alludere alla prossima venuta dell’anticristo, mentre si moltiplica in tutto il globo il fenomeno delle stigmate in donne di diversa età, tra cui la neanche ventenne Grace che tanti anni prima era scampata ad uno dei peggiori genocidi che la storia africana recente ricordi.
La storia di Grace si intreccia con quella di Zoran, prossimo a prendere i voti, per il quale la giovane aveva sempre provato dei sentimenti – e per il quale motivo si sente profondamente inadeguata nei confronti di Dio, per non riuscire a donarsi a Lui nella purezza sia fisica che spirituale.
Accanto a questo, (i) una ragazzina americana minorenne con una diagnosi di condizione analoga alla menopausa – e che per questo vuole a tutti i costi ricorrere all’inseminazione artificiale per avere un figlio – e (ii) le beghe interne delle gerarchie ecclesiastiche, con i vari porporati che brigano per perseguire i propri piani che così poco hanno a che fare con la carità divina.
Tanta carne a cuocere che l’autore affronta con lo stile riconoscibile del fumetto franco-belga, lavorando cioè molto in sottrazione e astenendosi da qualsivoglia tipo di spiegone, privilegiando invece una velocità nella narrazione che però alla fine rischia di perdersi il lettore per strada: il ritmo elevato risulta infatti di gradimento solo in apparenza, dato che in più di un passaggio si è costretti ad ulteriori riletture per meglio comprendere come si combinino tra di loro le varie sequenze nelle quali la storia si articola.
La stessa tendenza traspare anche nell’opera del nostro connazionale Elia Bonetti (tra l’altro, tra le firme più presenti negli ultimi anni della produzione Diabolika), che gioca in maniera molto libera sulla gabbia a quattro strisce e asseconda in maniera efficace il tono della narrazione
Il suo tratto lineare ben si attaglia alla descrizione delle location, sia in interni che in esterni, perseguendo al contempo un approccio molto realistico per quanto riguarda i vari personaggi – sebbene non sempre tutte le fisionomie rimangano coerenti nel corso delle circa 150 pagine di cui l’opera, edita da Cosmo, si compone.
Riprendendo il discorso iniziale, come spesso accade in questi casi la vicenda si conclude in maniera abbastanza recisa, e l’ammontare di passaggi solo accennati poco aiuta a comprendere per bene il finale in prima battuta. Rimane però chiara la sensazione di avere letto una storia su una tematica tanto affascinante quanto spinosa, narrata da un punto di vista non necessariamente appesantito da vincoli filo-religiosi, sebbene non necessariamente critico e anticlericale: un equilibrio che tiene fino a un certo punto e che implode alla fine sotto il peso stesso dell’eccessiva materia messa sul piatto, lasciando un vago sentore di insipienza mascherata da una dose malcelata e inopportuna di spezie.
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