The Red Wing

“The Red Wing”
di Jonathan Hickman

Il tempo come spazio e destino

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1 min read
7.5/10

Con The Red Wing (2011) Jonathan Hickman torna, con Image Comics, ad affrontare l’affascinante e scivoloso tema dei viaggi nel tempo. Hickman mutua per l’occasione da Julian Barbour – passando anche dall’immaginario di Kurt Vonnegut – l’idea del tempo non come linea, ma come anello circolare stratificato, in cui le ere convivono come livelli di un unico spazio percorribile. La formula è semplificata quanto basta per funzionare nelle poche pagine della miniserie: una digressione concettuale che non invade il racconto, ma ne costituisce il motore, un’abile suggestione scientifica trasformata in architettura narrativa.

In questo quadro anche la guerra non rimane semplice scenario, ma diventa teatro concettuale con i personaggi che non combattono solo contro un nemico esterno, ma contro la percezione stessa della propria identità e memoria, sospese dentro un tempo che si piega su sé stesso.

Qui Hickman riesce a trovare un equilibrio che mancava nei suoi primi lavori: la narrazione procede appassionante senza rinunciare alle derive concettuali, e il coinvolgimento emotivo si intreccia con la riflessione teorica con maggiore forza e pathos.

La tensione è costante, sostenuta da una costruzione che alterna battaglia, memoria e rivelazione e il legame padre/figlio è questa volta declinato in forma più intima e funzionale alla crescita dei protagonisti.

È proprio questo legame a radicare l’astrazione in qualcosa di umano: un ponte fragile tra la matematica del tempo e la carne dei personaggi, che restituisce pathos a una vicenda altrimenti dominata da geometrie concettuali e ottimo design grafico. 

Il tratto di Nick Pitarra è infatti eccellente, pulito ed essenziale, capace di dare consistenza tanto al mecha vintage delle navicelle quanto agli scenari e ai personaggi. La colorazione, dai toni retrò, avvolge il gioco temporale e ne enfatizza i momenti più violenti, trasformando il viaggio nel tempo in esperienza sensoriale. Lo stile visivo complessivo, coerente e rigoroso, è una delle componenti più riuscite dell’opera.

Eppure la miniserie paga il prezzo della brevità. Quattro numeri sono pochi per reggere un impianto così ambizioso: molti spunti restano abbozzati, i comprimari appena tratteggiati, alcune sequenze accelerano bruscamente. Il coinvolgimento emotivo avrebbe guadagnato forza da una maggiore foliazione.

Rimane così un’opera intensa ma compressa, che lascia la sensazione di un’idea enorme, con tutti gli echi cari ai topoi di Hickman, contenuta a fatica dentro un formato troppo esile.

VOTO
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Pasquale Laricchia

Cominciai a correre. Finché i muscoli non mi bruciarono e le vene non pomparono acido da batteria. Poi continuai a correre.

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