“Himawari House. Il mio anno giapponese” di Harmony Becker

Tre ragazze sospese alla ricerca di sé stesse e una casa altrove come nuovo focolare

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Tina ha lasciato Singapore, ma pure in Giappone il cantante di cui segue le gesta su tutti i social resta la sua unica consolazione. Hyejung, coreana, ha preso a pretesto gli studi per scappare da una famiglia il cui troppo amore soffoca, ma è più di un anno che non dà notizie e il rimorso rischia di schiacciarla ancor di più. Nao, nippo-americana, il Sol Levante l’ha scelto per riscoprire le sue origini, rinnegate per adattarsi quando i genitori si trasferirono negli States. Tutte si ritrovano a Himawari House, periferia tokyoita, nella casa condivisa messa a disposizione da due giovani fratelli del luogo. La scusa, studiare; la realtà: imparare a vivere. E per tutte sarà un anno di scoperta e condivisione.

La ricerca identitaria, complice forse il trumpismo imperante, percorre come un fiume carsico la nuova produzione indipendente americana, che si tratti di identità di genere (Alison Bechdel, Tillie Walden) o transnazionale (Adrian Tomine, Deb JJ Lee). Harmony Becker, qui alla sua prima prova autoriale, si pone nel medesimo solco, recuperando dal manga struttura e codici caricaturali ma declinandoli secondo un’altra sensibilità.

La fluidità del segno e i cambi repentini di registro richiamano infatti quel precursore che fu Terry Moore con Strangers in Paradise. L’arco temporale poi, è certo suddiviso in capitoli, ma questi non seguono né la cronologia obbligata né la paginazione fissa della produzione seriale nipponica. Che i mezzi siano tutti padroneggiati lo dimostrano infine le tre tavole mute attraverso cui Becker descrive la vita della vicina di casa e la solitudine che la vecchiaia porta.

Si piange molto a Himawari House: un pianto necessario, consolatorio senza essere liberatorio, perché se “le lacrime lavano i cuori”, mostrando la via, percorrerla resta la scelta di ogni giorno.

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Vasco Zara

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