Tre uomini e una donna che non si conoscono sono invitati dalla defunta Agathe a trascorrere qualche giorno assieme nella casa dove ciascuno di loro ha vissuto con lei una storia d’amore. Gli sconosciuti decidono allora di parlare esclusivamente di lei, non di chi siano o di cosa sono diventati.
Se scritto così il plot sembra un giallo, tra le mani di Étienne Davodeau – autore conosciuto anche in Italia per i suoi reportage socialmente impegnati (Rurale!, La brutta gente) e le sue tranches de vie (su tutti lo splendido Un uomo è morto) – diventa un ulteriore, poetico frangente della sua personale ricerca sul senso della vita, che tutti vorremmo vedere scorrere, anche nei momenti più tragici, placida e serena come il fiume che dà il titolo alla storia: la Loira.
Davodeau racconta in primis attraverso la tavola: vignette quadrate per l’azione e i dialoghi, campo lungo per farci vedere quel che i protagonisti vedono, ponendo il lettore dietro le loro spalle. E tutto – dai ciclisti, agli animali, alla riva – sembra romantico come un quadro di Friederich, senza però che vi sia nebbia nel mare, anzi.
Grazie ad un acquarello che stempera ogni temperie, Davodeau ci offre quanto non osiamo fare: sognare. Le prime e le ultime dieci tavole sono in questo senso esemplari, addirittura gratificanti: Louis, sessant’anni, nuota e cammina, nudo, in una notte senza tempo. Per arrivare alla fine – dopo pagine mute, ma quanto piene di luce – a dire quel che tutti vorremmo fare: pensare come un fiume.