Sergio Badino, tanto per usare un’espressione tecnica, è dal 2009 uno degli sceneggiatori “avventizi” nella writers’ room del Detective dell’Impossibile. Al suo attivo ha circa una decina di storie, in un paio delle quali – a distanza di circa dieci anni l’una dall’altra – ha riportato per l’ennesima volta Martin (e Diana, ma non Java) in Egitto, terra che è stata teatro di alcune delle sue avventure più iconiche, come usa dire oggi (cfr. qui e qui).
A voler essere precisi, l’Egitto è solo la base di partenza – con tanto di inevitabile tappa al Museo del Cairo e al suo direttore, il cui nome viene tra l’altro disneyanamente storpiato a partire da quello del più noto Zahi Hawass. Vero protagonista in entrambi i casi è infatti il Sahara, o meglio alcuni dei suoi più sperduti anfratti, così come il suo sottosuolo, che sembra costituire un piano geografico indipendente ed inconosciuto, carico di meraviglie e pericoli in egual misura.
Ne Il Nilo giallo, protagonista della quota “storica” del racconto era la celeberrima scrittrice Agatha Christie; la doppia L’enigma di Napoleone / Il regista e l’imperatore vede invece l’autore mettere in piedi la strana coppia Napoleone/Stanley Kubrick – quest’ultimo tra l’altro già noto ai fan del BVZM per essere stato chiamato in causa in merito tanto all’allunaggio del 1969, quanto al set delle riprese del film Shining. Stranamente, invece, del figlio di Ajaccio la serie non si era mai occupata realmente da vicino: e sì che sulle sue gesta si sarebbe addirittura potuto ricamare un qualche collegamento con l’allora nascente base di Altrove.
In entrambe le vicende, si diceva, l’autore ha preferito Diana a Java come “+ 1” di Martin. Chi conosce anche un minimo approfonditamente il personaggio non ha potuto non riconoscere l’eco di dinamiche portate a livelli eccelsi dal compianto Paolo Morales: nelle sue mani, Diana era forse come non mai assurta a compagna per certi versi tridimensionale di Martin, una figura capace di completarlo come uomo e non come personaggio “di carta”, oltre a mostrare un carattere forte e mai scontato. Nelle due storie in esame, ciò viene solo suggerito nel primo caso – e i disegni di Alessandrini contribuiscono non poco come fattore amplificante – mentre nel secondo Diana fa da vera e propria guida morale per il consorte, facendogli ritrovare quella chiave che aveva smarrito, e che gli era necessaria per non cadere vittima delle sue stesse ossessioni.
Peccato che, appunto, di Morales ce ne fosse solamente uno, ragion per cui, se di questi tentativi di emulazione un occhio esperto può anche avvedersi, il risultato finale rimane tuttavia alquanto didascalico – sebbene si tratti di uno sforzo che vada in ogni caso sottolineato, al di là di quanto si possa ragionare circa l’esperienza e la capacità necessarie per riuscire a governare in maniera sufficientemente efficace tutti i membri del terzetto ad un tempo (cfr. ad esempio qui).
Ancora, le due storie vedono una caratterizzazione (e successiva gestione) similare anche per quanto riguarda i vari comprimari: Badino punta decisamente verso figure dalla psicologia mai del tutto incasellabile a priori – e questo di per sé non è un male – salvo mettere in campo troppi cambi di prospettiva la cui resa narrativa, a lungo andare, si smorza in maniera eccessiva, fino a condurre a finali positivi ma un po’ affrettati (nel primo caso) o addirittura involontariamente anticlimatici (nel secondo), quasi fossero due varianti di molte di quelle conclusioni tronche che Manfredi si è riservato a suo tempo di dotare a non poche sue storie tanto di Dylan Dog, quanto di Nick Raider.
È in primis il caso del giovane Samir, di cui Martin e Diana fanno la conoscenza quando sono in procinto di affrontare la traversata del deserto in cerca della città perduta di Zerzula, accompagnati da Alastair Maugham, curatore della Greenway House – la magione dove visse la Christie.
Samir e Alastair compiono due percorsi oscillatori contrapposti, che vedono più volte modificare la percezione nei loro confronti da parte del duo mysteriano e, con essi, del lettore; come però già anticipato, è un gioco che alla fine stanca e, se pure il destino di Alastair per mano del fratello Mitch – per quanto la sequenza sia un po’ macchinosa in sé – non sia poi così telefonato, lo diviene invece inevitabilmente quello di Mitch ad opera di Samir. Ne consegue, dal punto di vista del ritmo narrativo, che anche lo spiegone finale che svela il mistero su Zerzula e i suoi abitanti sembra arrivare quasi con un attimo di ritardo, perdendo così gran parte del suo pathos. Tra l’altro, data la (non meglio specificata dall’autore) peculiare natura degli abitanti della città, un suggestivo – ma, ahimè! mancato – collegamento sarebbe potuto essere quello con la civiltà dei Dogon, che con la stirpe di Samir condividevano ben più di un aspetto.
Lo stesso – enigmatico – Samir fa invece poco più di una comparsata nella vicenda incentrata su Napoleone, agendo sostanzialmente da “gancio” verso un’altra figura (Hatim) che, pur con i dovuti distinguo, alla fine ne rispecchia molti dei caratteri salienti: l’impressione che ne rimane è quindi quella di un more of the same.
Discorso analogo per i due comprimari di questa nuova trasferta, vale a dire Victor Dumont e Phoebe Grace: le motivazioni alla base del loro agire sono spesso volutamente ondivaghe, per non dire eccentriche, quasi volutamente sopra le righe. Dumont passa dal sostenere Martin a fare aperte avances a Diana, per poi puntare verso il nostro una pistola che poi riabbasserà senza alcuna chiara logica di causa/effetto; Phoebe rivela sì sulla lunga distanza le sue ossessioni, ma lo fa in una maniera molto disordinata, e la sua credibilità come personaggio è già persa da tempo quando alla fine la maledizione di Shu si abbatterà su di lei – in uno showdown analogo a tanti altri già visti nella serie nel corso degli anni.
L’unico confronto assolutamente improponibile è quello sul piano grafico: da un lato c’è Giancarlo Alessandrini, il creatore grafico della serie, il cui operato rimane sempre su livelli di eccellenza e funge volente o nolente da benchmark per tutti gli altri esponenti della scuderia mysteriana. Come prima accennato, il suo contributo consente al racconto di guadagnare una profondità che i soli testi non raggiungerebbero; questa prospettiva si concretizza nella più recente doppia, dove Renato Riccio cerca di compendiare al meglio echi soprattutto di Filippucci e (in misura minore) Torti e Vercelli.
La qualità dei risultati si apprezza di più nella ricostruzione degli eventi storici – maggiormente incentrati su Napoleone che su Kubrick – mentre gli avvenimenti principali ambientati ai giorni nostri vedono fisionomie non sempre centrate, in special modo per quanto riguarda Martin, a tendere verso un prodotto finale che fino a non molti anni fa si sarebbe detto più adatto ad un “bonellide”. Ciononostante il tratto è chiaro e si comprende come Riccio stia portando avanti un percorso di maturazione personale, che forse una prova meno elongata avrebbe premiato di più.
A proposito di prove elongate, entrambe le storie in esame presentano una foliazione superiore alle canoniche 94 tavole – vuoi perché nel 2016 il formato era bimestrale e con un numero più nutrito di pagine, vuoi perché ora il formato è sì mensile, ma a scartamento ridotto. A distanza di una decina di anni, quindi, ancora si avverte il fiato corto sulla lunga distanza, con l’aggravante (tra molte virgolette) che forse un albo singolo avrebbe potuto mantenere un ritmo meglio cadenzato, ed una scrittura più internamente coerente, con personaggi necessariamente più compressi – e forse, proprio per questo, meno proni a deviare dal canovaccio di partenza per imbarcarsi in odissee narrative. Un plauso va a Badino, in ogni caso, per aver creato una sua piccola mitologia nel corso di poco più di un decennio, ripescando dal baule mysteriano dei viaggi una meta tutt’altro che banale, e ancora capace di sorprendere.
Il Sahara dovrà evidentemente esercitare un fascino innegabile, se sparsi qua e là lungo la sua immensa superficie si aggregano città perdute, templi, portali e via dicendo: più che un deserto, sembra una testimonianza verace del viavai di civiltà nei tempi che furono, con ancora diverse frecce al suo arco per minare quanto serve la nostra fiducia nella storiografia ufficiale.
È quindi più che lecito aspettarsi che un certo Detective dell’Impossibile tornerà prima o poi a farsi ammaliare dal suo ineffabile richiamo.












