Moonshadow di J.M. DeMatteis, Jon J. Muth con la collaborazione di Kent Williams e George Pratt (1985 1997)

“Moonshadow” di DeMatteis & Muth (1985-97)

Qui suis-je, d’où viens-je, où vais-je…

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Moon 1Cos’è una storia? Quanti tipi di storia esistono?
Le storie sono percorsi, itinerari, traiettorie, strade. Viaggi. Le storie (ci) portano da un punto a un altro, oppure da un punto al nulla (o viceversa); talvolta dal punto di inizio riportano al punto di inizio o dalla meta finale alla meta finale; o invece consentono di vagare senza meta, ovvero ci mostrano una meta che continuamente sfugge al nostro avvicinarvisi. Assumono l’aspetto e la funzione di grandi autostrade diritte; tortuosi viottoli di montagna; sentieri boschivi misteriosi, solitari, silenti; sterrate campagnole che di colpo si interrompono o viuzze cittadine che finiscono contro un muro. Altre volte sono affollate strade urbane; o circonvallazioni congestionate, o magari deserte. Oppure labirinti. Come Moonshadow.
Come ogni labirinto Moonshadow ha (forse) un ingresso noto e (presumibilmente) libero, e con questo si esauriscono le (possibili) certezze del lettore. Dentro il labirinto, dentro la struttura narrativa dell’opera e i suoi varî, ondulati, frastagliati e spezzati rivoli narrativi il lettore non può che perdersi, o più precisamente non può che abbandonarsi al piacere, alla lascivia vera e propria di pagine e pagine di arte pittorica, sapienza descrittiva e misteri sapienziali fusi in un flusso narrativo dove strati e strati di impressionismo surreale, delirio poetico, gioiosa coprolalia e lucida follia, sciamanica non meno che figlia di acidi e pasticche, ammantano e nascondono un nucleo di senso che, appena lo si intravede, sfugge comunque.
Moonshadow è stato serializzato tra il 1985 e il 1987 in dodici capitoli; dieci anni più tardi gli autori hanno poi aggiunto alla loro opera un “Epilogo” che – più che fornire una conclusione – appare un’ipotesi alternativa, o forse ancora, e più correttamente, una chiusura coesistente con quella presentata nel dodicesimo capitolo.

Ma in concreto, cos’è Moonshadow, oltre l’ineffabile e allucinata descrizione tentata più sopra? È realmente un delirio come appare scorrendone e leggendone le pagine soffuse di una bellezza che lascia ammirati e stupiti? No, tutt’altro; e sì, decisamente.

Il racconto delle vicende esistenziali di Moonshadow, qui inteso come il personaggio eponimo dell’opera, è tutto fuorché privo di un obiettivo chiaro, di un intento lucido e di una materia più che concreta; solo, l’obiettivo è inattingibile, l’intento è privo di valore reale, e la materia non ha un senso logico: non è nella logica che si può ricercare né tanto meno trovare il significato universale della vita – in prima istanza non è un’operazione logica il cercarlo, né ha un qualche valore il trovarlo visto che una tale chimera non esiste. Né più né meno è però questo lo scopo del neopicaresco vagabondare di Moonshadow di pianeta balzano in pianeta farlocco, su un’improbabile astronave catorcio e in compagnia dei più assurdi sodali d’avventura. L’opera è generalmente descritta come un romanzo di formazione – e tra le altre cose è certamente anche questa: uno dei sentieri senza uscita del labirinto è il tracciato di questo supposto itinerario di formazione, che però nulla e nessuno forma e a nessun nuovo stato di consapevolezza conduce. Oh, certamente all’atto di entrambi i finali dell’opera Moonshadow è un individuo altro da quello che aveva iniziato la quest (entrambe le quest: quella che prende avvio con il primo capitolo e quella che principia all’inizio dell'”Epilogo”), ma non perché abbia compiuto con successo un percorso e abbia superato delle prove, ma perché in lui avviene un “risveglio” – cosa per altro di cui il lettore è reso edotto da subito. È un corto circuito della coscienza – e della logica – che promuove la consapevolezza; non un percorso lineare, per quanto frastagliato. Qui sta il senso di questo delirio, al tempo stesso allucinato e lucidissimo: nella rivelazione che la vita non può essere indagata con la logica lineare, ma – forse – svelata da un processo di risveglio frattale che partendo dal gradino più basso, quello della nostra identità, arriva a scoprire che questo è tutto quanto ha senso, e al di là non vi sono che fantasie, incubi, fantasmi.
Il registro realistico e statico dell'”Epilogo” pare in contraddizione con il lisergico, funambolico e randagio nomadismo incessante dei dodici capitoli in precedenza composti, ma in realtà ne rappresenta un’iterazione sotto altra forma. Se un senso qualunque ha la vita – non un insensato senso universale, ma un più limitato e concreto senso personale – è quello che per dodici capitoli Moonshadow cerca con l’angoscia di un’anima smarrita e la fame e la sete di un epocale naufrago dell’esistenza; ma anche con la fiducia e la speranza dell’uomo di fede: non di una fede, ma della fede nell’esistenza di qualcosa che appaghi la fame e la sete dell’anima. Alla fine del dodicesimo capitolo, alla fine del suo viaggio delirante, avviene il suo “risveglio”. L’ “Epilogo” è il resoconto in prosa di questo “risveglio” giunto al termine del suo viaggio poetico e psichedelico, e suggerito al lettore lungo quel percorso. Se vi è una risposta alla ricerca di un senso alla vita, se vi è un’uscita dal labirinto di questa ricerca, esse non possono essere in altro che nella nostra identità più radicale: il luogo fisico e mentale da dove partiamo e al quale ritorniamo. Il nostro desiderio di dare e ricevere amore. A medicine for melancholy, lo definì Ray Bradbury in uno dei suoi racconti più belli, e ne scopriamo il perché nelle quasi cinquecento tavole di questo viaggio immaginifico, di questo labirinto dove ogni uscita sbarrata pur ci avvicina a quella buona, ogni specchio deformante in cui incappiamo a una svolta del percorso pur ci indica, travisandolo, un indizio della verità.
Forse. Se accettiamo che un enigma irrisolvibile con la logica possa comunque contemplare una soluzione logica, pur soltanto narrativa. O forse, invece, l’unico senso possibile, l’unica risposta è nella storia stessa, nel racconto, nella funzione di dragaggio della nostra anima che hanno avuto tutte le storie narrate dall’alba dei tempi dell’umanità e che si perpetua ogniqualvolta una nuova storia si aggiunge: siamo vivi davvero fin quando una nuova storia ci emoziona o ci emoziona narrare una storia. Possiamo risvegliarci nel confronto con un’altra anima, con tutte le altre anime, che ci viene porto da una storia, da tutte le storie.

Forse è davvero Moonshadow il senso della (nostra) vita: scoprirne la storia e fantasticarci su; godere dell’arte squisita di Jon J. Muth – cui hanno fornito supporto in occasione di scadenze pressanti Kent Williams e George Pratt – che ha fatto della sua opera un museo di quadri vivi e parlanti che compongono un racconto nel quale si mescolano esperienza sensoriale, incanto, riflessione. E i delicati, violenti, fulgidi, tenui acquerelli di Muth illustrano e danno vita a un racconto nel quale John Marc DeMatteis ha riversato tutto ciò che la creatività umana ha concepito nella sua storia, o giù di lì.

Moonshadow (la storia) è il racconto dei viaggi tra le stelle dell’adolescente Moonshadow (il personaggio), figlio di una hippy sessantottina con il cervello squagliato dalle droghe e la saggezza di un guru vedico e di un alieno a forma di sfera biancastra ghignante, le cui azioni (come quelle di tutti i suoi simili) sembrano dettate dal caso e dal capriccio a fasi alterne. Nel suo saltabeccare planetario da un posto di matti a uno di follie assortite, il giovane è accompagnato dal suo gatto Frodo, la cui funzione è sostanzialmente apparire di tanto in tanto sulle pagine del racconto, dalla sua saggia e fusa madre e poi dal saggio e fuso fantasma della donna, e dal suo “amico” Ira, un… un incrocio tra il Cugino Itt della Famiglia Addams, un Sasquatch e la coda di un coniglio. La funzione di Ira è sostanzialmente di mostrare a Moonshadow che la vita è una grande merda, l’essere umano (come quello alieno) è una merda, ma tutto può sempre peggiorare; e paradossalmente di indicargli uno dei percorsi alternativi per il suo “risveglio”. Come quella di Sheila Fay Bernbaum, la hippy sessantottina con il cervello in pappa che lo ha generato, è di non fargli mai perdere la speranza e la fede che quel “risveglio” sia possibile.
Attorno a loro, una galleria di personaggi uno più stravagante e inverosimile dell’altro, tutti ingranaggi di un racconto che DeMatteis arricchisce di suggestioni simboliche, rimandi a ogni opera che abbia nutrito il suo immaginario e contribuisca a un universo che eleva il registro più basso, corporeo nel senso più primordiale, tutto lo sperma, il sangue, le flatulenze che tramano il racconto, e che per converso satireggia le funzioni più elevate dello spirito (per poi virare a centottanta gradi, restituire la poesia alla poesia e una scorreggia di Ira al suo animalesco istinto). Il fantasma della zia Ettie, più matto di sua nipote Sheila Fay, il buon Lord Gaylord, la regina Dibbich e il suo regale e matto consorte, le anime nere della famiglia Unkshuss e Flobidiah Unkshuss fiore nato dal letame, il pietoso e amorevole carnefice Darkmeister Eban, Lady Shady, la genia dei G’L-Doses, i conspecifici del padre di Moonshadow, sono gli orchestrali della lussureggiante e criptica sinfonia imbastita da DeMatteis e visualizzata dalla magia grafica di Muth. Ciascuno di loro e degli altri, presumibilmente a parte i presumibilmente onniscienti parenti di Moon, sono portatori irrisolti, dormienti, di quella stessa fame che fa smuovere mari e monti a Moon.
E infine Bettina, il farmaco per la melanconia di Moon, che perfino quando non ci sarà più, sarà stata un rimedio abbastanza forte da “costringerlo” a non cedere più al richiamo della melanconia.
Forse. O forse Moonshadow (l’opera) non è che il frutto del cervello ormai morente e delirante di un uomo vecchissimo chiamato Moonshadow, che nei suoi ultimi momenti di vita ripercorre la sua lunga, travagliata, felice esistenza nello sfilacciante venir meno di un sogno. Forse il senso è tutto qui.
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