“Se devi dire una bugia, dilla grossa” citava il titolo di una nota commedia teatrale di Garinei & Giovannini.
Parafrasando, se vuoi scrivere di un essere umano che eccelle in qualsiasi cosa faccia – tipo uno Steve Rogers elevato alla Stephen Hawking, o un Leonardo Da Vinci sotto steroidi – l’unica opzione che hai è strafare consapevolmente, dosando con un minimo di sense of wonder un personaggio altrimenti difficile da empatizzare per il lettore.
Edison Crane è il top di gamma praticamente in tutto, dalla rocket science alla posa dei semi di sesamo sui panini tipo pub, e affronta ogni sfida con un misto tra algida consapevolezza di sé e fame chimica cerebrale. Per espressa dichiarazione dell’autore, è una sorta di impasto tra Sherlock Holmes, Batman e Indiana Jones, e financo il celebre stunt-man Evel Knievel – con, ci si conceda, un certo pizzico di King/Bond, ma senza volute di fumo di Cobbs.
Nelle due avventure a lui finora dedicate (nel 2019 e nel 2022), la florida vena creativa di Mark Millar lo ha posto di fronte a sfide poco meno che impossibili, che spaziano da terre parallele alla discendenza di Atlantide, il tutto condito – soprattutto nella sua prima apparizione – con il classico campionario di stramberie più o meno intrepide, atte a definire il background del personaggio, o almeno parte di esso. Anche il dovuto pegno al fattore introspettivo risulta pagato il giusto: Edison ha la sua brava “origin story” – non ovviamente nel senso supereroistico del termine – che lo vede in particolare contrapposto ad una figura paterna che ha ben poco di genitoriale, e con la quale – altrettanto ovviamente – dovrà in futuro fare i conti per completare il suo percorso di crescita psicologica.
Il dover gestire un personaggio dall’intelligenza multiforme e multitasking (quasi?) ai limiti del potenziale umano ha in certo qual modo condizionato molte scelte di sceneggiatura: alcuni passaggi risultano eccessivamente veloci, quasi appunto a voler assecondare le superiori dinamiche intellettive di Edison, ma dal punto di vista narrativo la cosa è a volte di ostica fruizione, e viene alla fine controbilanciata solo grazie ad un’alternanza di stili e registri che, inducendo un frenetico montaggio delle tavole, provano a smorzare le citate difficoltà di lettura – che a loro volta rimandano alla altrettanto citata questione della difficile empatia.
Rafael Albuquerque e Matteo Buffagni compiono entrambi un lavoro d’eccellenza nel tradurre in immagini l’ennesimo figlio(l prodigo) del MillarWorld. Dovendo tirare una linea di demarcazione, la componente action di Albuquerque mantiene sempre un tono “boombastico”, iper cinetico e sopra le righe; per contro, Buffagni riesce meglio a rendere le atmosfere da fotoromanzo d’avventura degli anni ’50 del secolo scorso, grazie anche ad un ispirato apporto ai colori da parte di Laura Martin e David Curiel. In sintesi: più Mission Impossible il primo, e più Clive Cussler il secondo.
Tirando le somme, stante anche il dichiarato mix di ispirazione, il vero potere di Edison Crane “sono i soldi”. È vero che la sua intelligenza gli ha permesso di scalare tutte le classifiche globali dei Paperoni, ma alla fine sono le sue ricchezze che adesso gli permettono di giocare a livelli di rischio (in tutti i campi) sempre più elevati, in una spirale che Millar ci presenta come indefinitamente virtuosa. La sua costante ricerca di una fonte di appagamento al suo smodato appetito di conoscenze lo rende un personaggio alla fine quasi solo fintamente altruista: aiutare il mondo è in realtà sempre un sottoprodotto della possibilità di saziare temporaneamente la sua citata fame chimica cerebrale.
E se per ovviare a questo “inconveniente” e rendere Edison un personaggio tutto sommato genuinamente avvincente bisogna continuare a mirare sempre più in alto, almeno finora sembra che per Millar questo sia davvero l’ultimo dei problemi.












