Negli anni Ottanta l’uomo diventa spettacolo. Non solo corpo, ma immagine: il completo destrutturato di Armani che in American Gigolo modella Richard Gere come un brand vivente; il pastello scintillante di Miami Vice che porta il glamour in strada; l’F-14 di Top Gun che erotizza la prestazione; la silhouette ipertrofica che, dal cinema al fumetto, coincide con l’autorità.
Non è un accidente stilistico: è il paradigma degli “hard bodies”, come li definisce Susan Jeffords, la maschilità muscolare intrecciata alla retorica reaganiana, mentre la cultura pubblicitaria confeziona un sé da esibire (Lasch aveva già fiutato il terreno: la “cultura del narcisismo”).
Dalle passerelle ai manifesti, dagli schermi alle tavole disegnate, si impone (quasi) un’unica estetica: quella dell’uomo-performance, del corpo che garantisce ordine, dominio, seduzione. Un mito che abita ogni medium, ma che nelle forme popolari della narrazione visiva trova la propria ripetizione più efficace: pose eroiche, muscoli inchiostrati, giacche tagliate come corazze, loghi che sostituiscono volti. È l’immaginario di un decennio che trasforma la virilità in linguaggio universale, pronto a essere messo in discussione non appena la maschera comincerà a incrinarsi.
Due opere “soglia”, The Dark Knight Returns e Watchmen, segneranno la frattura, ma prima di arrivarci occorre capire come quel modello si sia formato e consolidato: dal pulp avventuroso degli anni Settanta alla sua consacrazione negli anni Ottanta, tra corpi, costumi e icone di un potere maschile che, per un momento, sembrò eterno.
Il boom machista
Il primo fotogramma è l’abito. Con American Gigolo (1980) Giorgio Armani non veste solo un personaggio: istituzionalizza un modo di stare al mondo. La giacca svuotata di imbottiture, il grigio “liquido”, la camicia aperta diventano un codice di potere: maschile, cool, performativo. È la nascita del maschio-logo, in cui etica ed estetica collassano nell’ “effetto Gere”. Da lì a Miami Vice il passo è breve: la moda invade la polizia televisiva, la pistola convive col mocassino senza calze.
La maschilità si fa vetrina, un’ostentazione estetica che non resta confinata alla passerella o allo schermo, ma si riflette anche sulle pagine dei fumetti. Nei comics americani dello stesso periodo, i corpi e i costumi iniziano a parlare lo stesso linguaggio di Armani e Don Johnson: silhouette levigate, materiali lucidi, pose da copertina.
In American Flagg! (Howard Chaykin, 1983–1988) la virilità diventa superficie mediatica. Reuben Flagg, ex attore televisivo riciclato come agente di polizia in una Chicago del futuro dominata dalle multinazionali e dai network, è il perfetto uomo-immagine reaganiano: una divisa metà uniforme e metà completo sartoriale, un corpo costruito per essere guardato più che per agire. La sua forza non risiede nell’azione, ma nella posa: è un eroe progettato per la telecamera, figlio di un’America che ha sostituito la moralità con l’audience.
Chaykin dichiarò di essere “pazzo, drogato, furioso con l’amministrazione Reagan e ossessionato dal sesso”, e American Flagg! riflette esattamente quella febbre: un fumetto che parodia e insieme imita il machismo del decennio, popolato da corpi lucidi, armi-feticcio e spot pubblicitari travestiti da avventura.
L’eroe diventa veicolo del potere mediatico che lo crea — simbolo e caricatura di sé stesso — mentre il desiderio maschile, continuamente sollecitato, si dissolve in consumo.
In Grendel (Matt Wagner, 1982–1988) la mascolinità assume un’eleganza predatoria: Hunter Rose, scrittore raffinato di giorno e killer notturno, veste smoking e guanti bianchi come simboli di dominio. Il corpo è nascosto, ma l’abito ne diventa il prolungamento, una seconda pelle che sublima il potere nella forma.
Sono figure che, come gli eroi patinati del cinema, trasformano il vestire in linguaggio identitario: l’eleganza non nasconde la forza, la codifica. È la nascita del corpo maschile come marchio estetico — preludio all’ipertrofia fisica che esploderà di lì a poco.
Il corpo ipertrofico, che negli anni Settanta era stato ancora simbolo di lotta — basti pensare a L’Uomo Tigre, dove la forza fisica si legava alla giustizia e al sacrificio — negli anni Ottanta si trasforma in spettacolo assoluto.
È la stagione d’oro del wrestling: Hulk Hogan, Macho Man, André the Giant in America, Antonio Inoki e Giant Baba in Giappone. I loro corpi non raccontano più la violenza reale ma la sua rappresentazione, una parodia muscolare del potere che diverte e rassicura. È la messa in scena del dominio come intrattenimento, il machismo trasformato in cartoon vivente.
La retorica degli “hard bodies” trova così un’estensione perfetta: il ring diventa la sua arena simbolica, dove la lotta è rituale, le rivalità sono teatrali e la forza è sempre finta ma ostentata. Gli eroi del wrestling, come quelli dei fumetti, incarnano un potere esibito e mai messo davvero in discussione. Sono icone costruite per il pubblico, oggetti di identificazione e di consumo.
Ma proprio questa estetica eccessiva, urlata, prelude al collasso: il corpo non è più segno di autorità, ma di saturazione. È il momento in cui la virilità diventa spettacolo di sé stessa, una coreografia che preannuncia la fine dell’eroe come figura seria.
Nemmeno la cultura giapponese è estranea a questa convergenza. In City Hunter (1985-91) l’eroe metropolitano veste come un modello di Men’s Non-no: giacche strutturate, occhiali, pistole e notturni urbani; l’azione è intrisa di eleganza, e la virilità si fa stile.
Espressione massima di questa estetica è forse Masters of the Universe, fenomeno cross-mediale che riduce la muscolarità a marchio: giocattolo, fumetto, cartone, manifesto — il corpo come prodotto globale.
Da questo punto il cinema non fa che amplificare ciò che la carta aveva già codificato: l’uomo come superficie performativa, il corpo come linguaggio universale del potere.
Jeffords chiama quegli eroi “hard bodies”: muscoli come naturalizzazione del comando. Commando, Cobra, Top Gun, Rambo: il corpo è dispositivo di sovranità, il gesto tecnico — l’arma, il jet — un’estensione fallica che promette ordine. La teoria aiuta a decodificare l’intuizione: Marianne Kac-Vergne, rileggendo Lynne Joyrich su Miami Vice, definisce l’ipermascolinità come “eccesso di maschilità che fa da scudo” contro la femminilizzazione dello sguardo; è la “struttura di base dello spettacolo maschile”.
Non a caso, in Top Gun la competizione omosociale erotizza la prestazione mentre la narrazione la ri-eterosessualizza in extremis.
La celebre scena della partita di pallavolo, girata con la cura di un videoclip — corpi lucidi, ralenti, jeans e torso nudo — è forse l’apoteosi di questa estetica: un rituale di desiderio maschile dissimulato sotto la retorica dell’agonismo. È un momento sospeso tra erotismo e patriottismo, dove la fisicità non comunica più forza operativa, ma pura superficie di fascinazione visiva.
Lo stesso paradigma si propaga nei fumetti, dove l’eroe diventa corpo e arma insieme. Personaggi nati in epoche precedenti — Conan, Iron Man, The Punisher — vengono riprogrammati visivamente e ideologicamente per adattarsi al nuovo clima culturale. Conan, reinventato in Marvel da Roy Thomas e John Buscema a partire dagli anni Settanta, non nasce come icona reaganiana ma vi si trasforma nel decennio successivo. Buscema — che aveva già codificato l’estetica del corpo eroico — fa di Conan una massa plastica e monumentale, muscolo e gesto come linguaggio assoluto. Negli anni Ottanta, con il film di John Milius del 1982, quell’immaginario esplode: il barbaro di Howard diventa modello archetipico dell’ “hard body”, ponte fra la fisicità dei pulp e il culto del corpo performativo contemporaneo. La muscolarità, da segno epico, si fa politica; la forza, da mito della sopravvivenza, diventa spettacolo del dominio.
The Punisher compie un’evoluzione analoga. Nato nel 1974, resta figura laterale finché, a metà degli anni Ottanta, la Marvel ne fa un’icona a sé: la giustizia privata elevata a mito civile. L’arsenale portatile di Frank Castle non è più strumento tattico ma segno identitario, reiterato in poster e copertine fino a diventare logo, merchandising, marchio.
In un’epoca in cui Iron Man rappresentava ancora la tecnologia come progresso, The Punisher ne offre il lato oscuro: l’arma come ossessione, la guerra personale come etica.
In Daredevil: Born Again (1986), Frank Miller e David Mazzucchelli esasperano il concetto introducendo Nuke, supersoldato tatuato di bandiera e nutrito di anfetamine patriottiche: una caricatura del corpo bellico che trasforma il muscolo in dogma e l’arma in feticcio. È l’immagine più diretta di quell’ “eccesso che fa da scudo”: la virilità ipertrofica che implode nella propria retorica.
In Giappone, la declinazione è diversa ma parallela. Con Gundam e i “robot realistici”, il mecha diventa più piccolo, più tecnico, ma anche più personale: una protesi dell’eroe e non più un dio metallico. Masamune Shirow, con Appleseed (1985-89), porta questa intuizione all’estremo, fondendo corpo e macchina in un unico organismo estetico: l’esoscheletro meccanico come estensione del desiderio di controllo, non più simbolo di redenzione come nei robottoni di Go Nagai, ma di potenza amministrata, di virilità tecnologica razionalizzata.
Pochi anni dopo, Neon Genesis Evangelion (1995-96) ribalterà completamente il paradigma: il mecha non funziona più grazie alla forza dell’uomo, ma ne rivela la fragilità. La macchina reagisce ai traumi del pilota, l’armatura si incrina con la psiche: il corpo virile non domina più la tecnologia, ne è dominato. È la conclusione logica — e tragica — del sogno di controllo iniziato negli anni Ottanta
E se in Giappone la fusione tra uomo e macchina diventa una promessa di ordine, in Occidente trova il suo riflesso autoritario in Judge Dredd. Nato come satira, il giudice-giuria-boia di Mega-City One diventa negli anni Ottanta un’icona perfettamente ambigua: incarnazione della Legge e della violenza legittimata, corpo corazzato che amministra la giustizia a colpi di proiettile. La divisa-armatura e la maschera fanno di lui il poliziotto-mecha, simbolo del potere che si autoconsuma nella propria rappresentazione.
Se Judge Dredd incarna la Legge assoluta, RoboCop ne rivela il dolore e l’ambiguità. L’opera di Paul Verhoeven (1987) è una parabola cristologica del corpo maschile “mutilato e risorto”, simbolo dell’America che trasforma la virilità in merce tecnologica. Verhoeven stesso definì RoboCop un Gesù con la pistola, la resurrezione del corpo americano in una società che ha dimenticato l’anima. Ed ecco che il corpo che garantiva potere ora è privatizzato, programmato, depotenziato emotivamente.
Tutto converge: corpo, arma, armatura, macchina — variazioni di una stessa ossessione. L’uomo-spettacolo degli anni Ottanta non è più soltanto visibile, ma strutturalmente armato: la pelle, l’acciaio e la macchina coincidono. Il fumetto, più ancora del cinema, serializza questo immaginario, lo moltiplica e lo porta fino al parossismo, preparandone involontariamente la crisi.
Corpo desiderante: l’eros e la frattura del mito
Al fianco della muscolarità bellica, gli anni Ottanta elevano anche l’eros dominante. 9 settimane e ½ (1986) mette in scena la relazione come campo di potere: l’uomo come regista del piacere, la donna come superficie da plasmare.
È la variante erotica dello stesso paradigma, dove la virilità non si misura più sul campo di battaglia ma in quello del corpo altrui. La camera indugia sul gesto, sul comando, sulla costruzione visiva del desiderio. È un’erotizzazione del controllo, coerente con l’epoca che reifica ogni esperienza: il piacere diventa consumo, il corpo maschile veicolo di status e di stile. La pubblicità di profumi, automobili e alcolici ne replica la liturgia, trasformando la seduzione in performance capitalista.
Anche il fumetto, che fino ad allora aveva raccontato la virilità come missione o giustizia, scopre il fascino della fragilità esibita. Crying Freeman (1986-88) di Koike e Ikegami è forse l’esempio più emblematico: il killer che piange dopo ogni assassinio sublima la violenza in tragedia, la forza in bellezza. Ogni tavola è una posa, ogni lacrima un gesto coreografico. Il corpo diventa oggetto estetico e oggetto erotico, osservato con la stessa attenzione con cui gli hard bodies hollywoodiani venivano filmati al ralenti. È l’altra faccia della stessa ossessione: l’uomo nudo, armato, ma questa volta in lacrime.
Nel mondo occidentale, la crisi del maschio performativo trova invece il suo teatro nell’iperbole e nella distopia. Ken il Guerriero (1983-88) porta all’estremo l’idea di potenza fisica, ma ne rivela anche il prezzo.
In un mondo post-atomico dove “vince il più forte”, la virilità è insieme codice morale e condanna emotiva: le “lacrime virili” non contraddicono il modello, lo umanizzano senza indebolirlo. La sofferenza di Ken è quella di un corpo che non può smettere di essere simbolo, anche quando vorrebbe solo essere uomo.
Il mito si incrina ma non crolla. Judge Dredd, Punisher, Ken, Freeman e gli eroi reaganiani condividono lo stesso meccanismo: il controllo come identità. Tutto è misura, potenza, disciplina — ma anche desiderio di redenzione, nostalgia di un’innocenza perduta. È qui che la virilità si trasforma in tragedia silenziosa, preludio alla disillusione degli anni Novanta: quando l’uomo comincerà a dubitare della propria armatura e a cercare, per la prima volta, una via d’uscita da sé stesso.
La crepa nell’armatura: la crisi dell’uomo-fortezza
A metà degli anni Ottanta, due opere-soglia cambiano per sempre il linguaggio della virilità disegnata. The Dark Knight Returns (1986) e Watchmen (1986-87) non inventano la crisi del maschio, ma la rendono visibile. Frank Miller e Alan Moore partono dagli stessi archetipi che avevano dominato il decennio — l’uomo armato, solitario, inflessibile — e li fanno implodere. Batman e il Comico sono due facce della stessa patologia: la giustizia privata come ossessione, la forza come dipendenza.
Miller trasforma il corpo in reliquia politica: il Batman anziano, armatura addosso e mascella di granito, è l’icona reaganiana ormai corrosa dalla paranoia. In Moore, l’ironia diventa analisi: l’eroe si svela come maschera nevrotica, un feticcio di controllo in un mondo che non si lascia più controllare. Il corpo, da simbolo di potenza, diventa il luogo del crollo.
Ma la frattura non è solo estetica: è generazionale. Gli eroi espressi negli anni Ottanta appartenevano a un mondo che aveva ancora nemici visibili e ideali granitici — la Guerra Fredda, il boom economico, il mito dell’uomo vincente. I loro figli, quelli che leggono Watchmen o The Dark Knight Returns, crescono invece in una cultura senza guerra, ma piena di colpe ereditarie. È la generazione che vive le contraddizioni del capitalismo, la dissoluzione della famiglia modello americana, la fine del padre-eroe.
Le “colpe dei padri” diventano tema centrale: l’ordine patriarcale, che negli anni Ottanta aveva prodotto l’uomo-fortezza, ora genera solo figure smarrite, in cerca di un senso.
Nel decennio successivo, questa crisi si manifesta anche sul grande schermo, dove il corpo dell’eroe diventa simulacro di sé stesso.
I film di Joel Schumacher — Batman Forever (1995) e Batman & Robin (1997) — rappresentano l’apice e al tempo stesso il collasso dell’estetica ipermaschile. L’armatura di Batman, lucidata e scolpita come muscolo artificiale, diventa puro feticcio visivo: cape, latex e capezzoli non come ironia involontaria, ma come sintomo di una mascolinità che ha smarrito la propria funzione simbolica. Come nota Will Brooker, “il corpo dell’eroe non è più segno di potenza, ma superficie di desiderio” — una scultura barocca che cita il proprio mito senza più crederci.
Schumacher porta a compimento ciò che Miller e Moore avevano solo annunciato: la smaterializzazione dell’eroe. Il Batman reaganiano, tutto controllo e muscolo, si trasforma in un manichino camp, un’icona queerizzata del potere che non comanda più ma si espone. Yvonne Tasker ha descritto questo slittamento come la transizione “dal corpo che agisce al corpo che si mostra”: lo spettacolo dell’azione diventa erotismo, il gesto tecnico si riduce a posa estetica. In Batman & Robin, l’iperbole dei costumi, la plasticità delle inquadrature, la sensualità dei duelli tra eroi e villains (Mr. Freeze – guarda caso interpretato da Schwarzenegger – e Poison Ivy) rivelano una messa in scena che è insieme parodia e autopsia del corpo maschile.
In termini culturali, questa trasformazione coincide con il tramonto definitivo della fiducia americana nel modello virile come garanzia di ordine. È la fase descritta da Susan Faludi in Stiffed (1999): gli uomini degli anni Novanta, privati del nemico e del ruolo patriarcale, si ritrovano “spettatori di sé stessi”, incapaci di incarnare il mito che hanno ereditato. Schumacher cattura esattamente questa condizione: un’America che non sa più credere alla propria maschera, che si compiace del proprio simulacro pur riconoscendone la vacuità.
Se The Dark Knight Returns e Watchmen erano la diagnosi della crisi, Batman & Robin ne è la mise en abyme spettacolare: un monumento pop al collasso dell’eroe, la conversione dell’hard body in superficie glamour, del dominio in desiderio. È il punto in cui il maschio-fortezza, svuotato di senso, diventa definitivamente immagine — e in cui l’immagine, specchiandosi, comincia a ridere di sé.
La generazione successiva, quella dei primi anni Duemila, tenterà di ricucire quella frattura: guarderà di nuovo alla guerra, al consumismo e alla paternità, ma da una prospettiva rovesciata — l’uomo fragile, il padre presente, non più il dominatore distante. È il passaggio da una virilità ideologica a una virilità relazionale, dove la forza non serve a imporsi, ma a sostenere (Invincible di Robert Kirkman).
La narrazione cambia tono quindi. Non più il corpo che punisce, ma quello che non sa più perché lo fa. L’eroe osserva se stesso come un doppio, un’ombra fuori tempo. In Watchmen, la fisicità perfetta del Dr. Manhattan non libera: lo allontana dal genere umano. L’iperuomo è già post-umano, e la sua potenza equivale all’impotenza.
La crisi si espande: l’eroe non è più la sintesi del bene e della forza, ma la contraddizione incarnata. In Daredevil (run di Ann Nocenti e John Romita Jr., 1988–1991), Matt Murdock vive la fede e la giustizia come dilemmi morali, non più come certezze. La religione, la violenza e il dolore fisico si fondono in una visione quasi ascetica della maschilità: l’uomo che non smette di combattere, ma non sa più per cosa.
Barry Windsor-Smith, in Weapon X (1991), radicalizza questa intuizione: Wolverine diventa il corpo vivisezionato, privato di volontà, ridotto a macchina da guerra. L’eroe muscolare degli anni Ottanta viene letteralmente ricodificato: la sua forza è frutto di tortura, la sua identità un esperimento. L’arma è ormai dentro il corpo, non più impugnata — la tecnologia diventa anatomia.
Nei primi anni ’90, la decostruzione assume una forma ancora più intima. Hellblazer (Jamie Delano, 1988–1991) introduce un protagonista che vive la maschilità come colpa: John Constantine è ironico e autodistruttivo, incapace di incarnare l’eroismo eppure costretto a sopportarne le conseguenze. Non combatte per ordine o giustizia, ma per sopravvivere al proprio cinismo. Il corpo smette di essere strumento: è il campo di battaglia interiore.
In letteratura, lo stesso meccanismo attraversa i romanzi di Don DeLillo e Bret Easton Ellis, dove il corpo maschile diventa superficie anestetizzata, e in Fight Club (1996) di Chuck Palahniuk la ferita fisica si trasforma in rito di rifondazione: il dolore come strappo alla passività, tentativo di riconquistare autenticità in un mondo che ha trasformato anche la forza in simulacro. La violenza non è godimento, ma linguaggio disperato contro l’alienazione.
Anche nei fumetti successivi la crepa si fa stile. Sin City (1991) di Miller riprende l’estetica noir ma la spinge nella caricatura, nell’iperbole grafica di un maschio che si fa artificiale. Spawn (1992) e The Crow (1989-94) ne ereditano la postura tragica: eroi dannati, redivivi, sospesi tra colpa e redenzione.
Ma qui la malinconia non è più tratto psicologico: è condizione permanente, atmosfera. Se Spider-Man o Wolverine piangevano la colpa per riscattarla, questi eroi vivono nella colpa come unica identità possibile. La muscolarità resta, ma è ormai cavità, corpo vuoto che cerca un senso nel dolore stesso.
Dall’altra parte del mondo, Berserk (Kentaro Miura, 1989) porta alle estreme conseguenze la stessa idea: Guts, guerriero titanico, incarna la forza come condanna. La sua muscolarità, disegnata con ossessiva precisione, non è glorificazione ma trauma: ogni ferita è memoria, ogni vittoria una perdita.
In lui si compie la parabola della virilità eroica — la potenza diventa isolamento, la sopravvivenza un castigo.
Il corpo non è più la garanzia del potere, ma la traccia di una mancanza. Se negli anni Ottanta l’eroe incarnava l’ordine, negli anni Novanta cerca solo un senso. La forza diventa fragilità, l’azione si rovescia in confessione, la virilità in spettacolo della fine. L’uomo-fortezza si spoglia della sua armatura, ma sotto non trova un altro corpo: solo il rumore del proprio crollo.
L’eccezione italiana: il maschile come disincanto e riflesso
In Italia, la rappresentazione del corpo maschile tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta segue una traiettoria autonoma rispetto ai modelli americani e giapponesi. Gli anni di piombo si sono appena conclusi, lasciando un Paese segnato da un trauma collettivo e da una sfiducia profonda nelle ideologie e nei miti dell’eroismo.
La generazione che aveva creduto nella rivoluzione si ritrova improvvisamente a fare i conti con il disincanto. È in questo clima che si afferma una nuova estetica sociale: la politica arretra, la televisione commerciale avanza, e il consumismo va a colmare questo vuoto. Ma, a differenza degli Stati Uniti, dove la cultura reaganiana esalta il corpo vincente e l’azione, in Italia l’immagine non viene mai consumata in modo ingenuo, anche perché non ha il medesimo background: è sempre elaborata, filtrata da un’intelligenza ironica o malinconica, ma anche intellettuale. La superficie non sostituisce la coscienza, la problematizza.
Il fumetto recepisce e amplifica questa tensione. L’underground di Cannibale e Frigidaire — laboratorio in cui convergono Andrea Pazienza, Tanino Liberatore, Filippo Scozzari e Stefano Tamburini — traduce il trauma politico e la fine delle utopie in una nuova iconografia del maschile: distorta, erotica, delusa, aggressiva ma fragile. Zanardi e Ranxerox non sono superuomini, ma caricature esasperate di un machismo in decomposizione. Il corpo è ancora esibito, ma non per celebrare la forza: è una ferita che si muove, un gesto di ribellione estetica. La muscolarità è deformata, la virilità è ironizzata. È una risposta culturale “intellettuale” al machismo globalizzato: il corpo come campo di crisi, non come manifesto di potere.
Nel fumetto popolare italiano — che non va confuso con il mainstream americano — la reazione prende una piega più umanistica. “Popolare”, in Italia, significa accessibile, seriale, ma non industriale: una narrazione che conserva un rapporto diretto con il lettore, un tono artigianale e una vocazione civile, più vicina al romanzo d’appendice che allo spettacolo di massa. E così, ecco che Martin Mystère (1982) introduce un eroe colto e razionale, simbolo di un maschile moderno che cerca di conciliare scienza e avventura. Dylan Dog (1986) compie il passo successivo: Tiziano Sclavi sostituisce la potenza con l’emotività, l’azione con la memoria, la pistola con l’empatia. In un panorama ancora dominato dai codici virili della tradizione bonelliana, Dylan Dog rappresenta la frattura: il primo protagonista italiano popolare che piange, che teme, che ama, che non comanda. È un anti-eroe immerso nel lutto e nella sua fragilità, nei suoi dubbi, specchio della società italiana che ha smesso di credere – o che fatica a riconoscersi – nelle grandi narrazioni e si rifugia nel privato. L’inadeguatezza sostituisce l’epica.
La letteratura amplifica lo stesso movimento di introspezione. Pier Vittorio Tondelli – con Altri libertini (1980) e Camere separate (1989) – e Aldo Busi – con Seminario sulla gioventù (1984) – riscrivono la maschilità come confessione e smarrimento: il corpo non è più strumento di potere, ma veicolo di desiderio, colpa e identità. In loro, come nei personaggi di Sclavi, la virilità si misura nella capacità di riconoscere la propria fragilità. È una rivoluzione silenziosa, che anticipa la crisi del modello machista americano ma la declina con una sensibilità più intimista che politica.
Il cinema conferma questa vocazione riflessiva. Nanni Moretti, in Ecce Bombo (1978) e Palombella rossa (1989), rappresenta un maschile logorato dall’intellettualismo, incapace di agire ma ossessionato dal pensare; Gabriele Salvatores, in Marrakech Express (1989) e Mediterraneo (1991), mette in scena una generazione che cerca sé stessa attraverso la fuga, la nostalgia, l’amicizia. Sono tutti racconti di uomini che non vincono, ma ricordano — e che nel ricordare si smontano.
Tra anni Ottanta e anni Novanta, l’esaltazione del corpo maschile non diventa mai paradigma centrale della cultura italiana. Dove emerge — nei film dei Vanzina, nello yuppie movie o in certa pubblicità glamour — resta un fenomeno marginale, estetizzato, più vanitoso che guerriero. Il baricentro della televisione commerciale, invece, è femminile: Drive In (1983–1988) e, più tardi, Non è la Rai (1991–1995) mettono in scena il corpo della donna come spettacolo quotidiano, trasferendo la seduzione dall’immaginario adulto a quello adolescenziale. La maschilità, in questo sistema, non è più corpo ma sguardo: conduttore, comico, mediatore. È il maschio che introduce, osserva, commenta — non quello che conquista.
L’Italia televisiva degli anni Ottanta e Novanta celebra dunque un erotismo diffuso e ironico, ma non un nuovo machismo. Il corpo maschile resta defilato
Quando negli Stati Uniti Watchmen e The Dark Knight Returns cominciano a incrinare l’immagine dell’uomo-fortezza, in Italia la crisi è già una condizione di partenza: il mito del corpo invincibile non attecchisce perché il Paese, reduce da anni di violenza e disillusione, non riesce più a credervi. Solo con la televisione berlusconiana ormai egemone e il trionfo della leggerezza dei primi anni Novanta, l’Italia produrrà la propria versione del corpo-spettacolo — ma il suo centro resterà femminile, non virile.
Il corpo come archivio
Dopo un decennio di esaltazione, la maschilità esce dagli anni Novanta svuotata e consapevole. L’armatura che negli Ottanta garantiva dominio — fisico, simbolico, narrativo — si rivela un simulacro: la forza non protegge più, ma isola. Il fumetto, più del cinema o della letteratura, registra con precisione questa mutazione perché nasce e prospera nella ripetizione: la serialità obbliga a interrogare il mito che riproduce. È così che l’eroe, reiterato fino al parossismo, finisce per consumarsi sotto il peso della propria immagine.
Ogni medium degli anni Ottanta aveva contribuito a erigere un pantheon di corpi ipertrofici e infallibili; il fumetto, che di quei corpi viveva, è stato anche il primo a mostrarne la stanchezza. Da Conan a The Punisher, dal guerriero al vigilante, fino agli spettri di Spawn e The Crow, la virilità passa dall’essere linguaggio del potere a linguaggio della perdita. La muscolarità diventa malinconia, l’azione riflesso, la colpa memoria.
Non si tratta di una fine, ma di una trasformazione di senso. La crisi del machismo non cancella il modello: lo rende leggibile, ne svela la costruzione. Dopo Watchmen e Fight Club, nessun corpo eroico può più essere ingenuo. Il maschio forte sopravvive, ma come figura consapevole della propria artificiosità — un attore che recita la parte del dominatore sapendo che il copione è già stato smascherato.
Il fumetto contemporaneo, erede di quella frattura, continua a oscillare fra nostalgia e autocritica: i supereroi rilanciati nei cicli moderni, da Batman: Hush a Punisher MAX, non sono che nuove maschere dello stesso dubbio. Il corpo resta il luogo in cui la società misura la propria ansia di controllo e la propria paura del cedimento.
Forse è questa la vera eredità di quegli anni: l’idea che la virilità non sia più un valore, ma una narrazione da decifrare. E il fumetto, con la sua capacità di riscrivere senza fine le stesse figure, resta l’archivio più fedele di quella lunga metamorfosi: la storia di un corpo che, dopo essersi creduto dio, impara lentamente a riconoscersi uomo.
Note bibliografiche
Christopher Lasch, La cultura del narcisismo (1979), Neri Pozza, 2020.
Howard Chaykin Q&A Panel at Loscon 44.
Sharon Mazer, Professional Wrestling: Sport and Spectacle, University Press of Mississippi, 1998.
Yvonne Tasker, Spectacular Bodies: Gender, Genre and the Action Cinema, Routledge, 1993.
Will Brooker, Batman Unmasked: Analyzing a Cultural Icon, Continuum, 2000.
Susan Faludi, Stiffed: The Betrayal of the American Man, William Morrow, 1999.
Thomas Lamarre, The Anime Machine: A Media Theory of Animation, University of Minnesota Press, 2009.
