Con La dama bianca, Claudio Lanzoni e Alessandro Russo mettono in scena un’operazione che, almeno in apparenza, richiama la storica doppia composta da Il castello della paura e La dama in nero (Dylan Dog n.16-17 di Sclavi / Montanari / Grassani).
Un riferimento che si esaurisce però nella scelta del titolo, nella copertina e nel ritorno, dopo un decennio, di Ernesto Grassani sulla serie mensile. La storia si muove infatti su binari del tutto autonomi rispetto ai precedenti, pur conservando una cifra nostalgica evidente tanto nella scrittura di Lanzoni e Russo quanto nell’impianto visivo.
La costruzione narrativa della prima parte dell’albo si àncora con efficacia a suggestioni care al Dylan Dog d’antan: l’atmosfera è ben gestita, l’incipit risulta solido e la messa in scena funziona, anche grazie a una buona gestione di Groucho, che torna a essere spalla brillante ma misurata. È in questa fase che l’albo riesce a restituire, per poche pagine, il sapore di un tempo e Grassani, con il suo tratto, prova a riattivare quel linguaggio visivo che per decenni ha caratterizzato la serie.
Purtroppo però le sue matite, oggi anche chine, restituiscono un Dylan Dog legato a un’epoca stilistica che si tenta di riesumare più per affetto che per necessità narrativa. Il tratto dell’artista, oggi orfano delle finiture di Montanari, risente di una certa rigidità anatomica e di un’espressività che spesso si traduce in smorfie caricaturali, quando non addirittura deformate, rendendo i volti grotteschi e a tratti irriconoscibili in una generale perdita di pulizia e coerenza visiva (soprassediamo sul cambio di vettura da una vignetta all’altra di pagina 19).
Anche la narrazione, dopo un avvio promettente, si disperde. La storia si appesantisce con l’ingresso di personaggi secondari ridotti a mere caricature, privi di spessore e utilità drammaturgica, con l’evoluzione del mistero che procede per accumulo e non per sviluppo, perdendo tensione e coerenza. Poco credibile anche la liaison tra Dylan e Carlotta, che fatica a trovare giustificazione nella logica interna della narrazione e appare inserita quasi unicamente per dovere di repertorio. I dialoghi (forse nell’intento di restituire un certo sapore del Dylan che fu) risultano invece sovraccarichi, verbosi e artificiosi. L’horror e lo splatter, elementi distintivi del personaggio qui fortemente rievocati, restano sullo sfondo, penalizzati sia da una sceneggiatura priva di mordente, sia da un comparto grafico poco efficace.
La dama bianca si presenta dunque come un atto d’amore verso un Dylan Dog che non c’è più, un albo che vive di nostalgia e per la nostalgia. Un omaggio sentito, ma che fatica a trovare una sua autonomia. La passione degli autori per il personaggio è palpabile ma, come già accaduto, non è sufficiente a mascherare i limiti strutturali di un racconto che resta in superficie e finisce per somigliare più a un simulacro nostalgico che a un omaggio vivo e consapevole.