Dylan Dog n.459 “Hikikomori”

La recensione del Dylan Dog di Giancarlo Marzano e Paolo Armitano

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5/10

Giancarlo Marzano torna su Dylan Dog  e lo fa allineandosi al progetto di attualizzazione del personaggio – con l’inserimento di tematiche sociali – messo in piedi da Barbara Baraldi.

Come da titolo, la storia di questo mese ruota attorno ad un hikikomori, Kyle, che vive recluso nella sua stanza rifiutando il contatto con le persone intorno e il mondo esterno.

Giancarlo Marzano esplora il fenomeno, presente in Giappone già dalla seconda metà degli anni ’80 e ad oggi frequente anche in Europa, e lo configura in maniera lineare ed esemplificativa indicando nella famiglia (assenza del padre / dipendenza dalla madre) la causa principale della condizione del giovane Kyle e ignorando quasi completamente, di contro, tutte le componenti sociali e culturali che ne sono spesso concausa.

Vengono inoltre del tutto ignorati dall’autore gli approfondimenti e le sfumature della problematica degli hikikomori che invece altre opere (ad esempio Welcome to the NHK, oppure Oyasumi Punpun) sono state capaci di approfondire. Qui, invece, il contesto di competitività sociale e rapporti adolescenziali è quasi del tutto assente o sotteso.

Tale semplificazione sostanzialmente banalizza la narrazione che finisce, difatti, per appiattire eccessivamente anche la virata horror dell’inserimento del vampiro. Questo perché il riferimento più palese della storia è il romanzo di John Ajvide Lindqvist Lasciami entrare, che ha invece la sua forza proprio nella sua capacità di usare l’archetipo e l’orrore del vampiro per interrogarsi su alcuni aspetti inquietanti che dominano il tessuto sociale contemporaneo.

Ancora una volta, quindi, l’orrore contemporaneo diviene pretesto e non fulcro di una storia di Dylan Dog e, ancora una volta, la tecnologia è il luogo da cui proviene il male assoluto.

Invero, nonostante un eccessivo manicheismo e tutti gli altri difetti di cui sopra, la storia è comunque ben scritta, tanto da scorrere persino piacevolmente, in particolare nelle escursioni più orrorifiche. Inoltre, le situazioni più angoscianti sono rese alla perfezione dal lavoro magistrale di Paolo Armitano che riesce, con le sue linee e le sue ombre, quasi a colmarne le lacune (quasi).

Alla fine, quello che rimane – nonostante l’indiscussa professionalità di Marzano e Armitano – è un albo incolore che riesce solo a raschiare la superficie dell’orrore e delle potenzialità del personaggio mancando, ancora una volta, di accelerare con decisione nella direzione auspicata dalla curatrice.

VOTO
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Pasquale Laricchia

Cominciai a correre. Finché i muscoli non mi bruciarono e le vene non pomparono acido da batteria. Poi continuai a correre.

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